
Mario Bertolissi è un costituzionalista friulano molto vicino al governatore veneto Luca Zaia. E’ stato recentemente indicato, insieme anche a Roberto Maroni come membro della Commissione sulla Autonomia voluta dal Ministro Boccia.
Il problema dei problemi: le riforme
Sarebbe semplicemente stucchevole – per non dire di peggio – pretendere di offrire un quadro di sintesi, ma tendenzialmente completo, di quel che si è cercato di fare, in oltre sessant’anni, per riformare il sistema-Paese. D’altra parte, sarebbe persino inutile, dal momento che è necessario, in primo luogo ed innanzi tutto, disporre di una chiave di lettura che consenta di cogliere il perché di tanti fallimenti, l’ultimo dei quali è stato realizzato dal Parlamento con la legge costituzionale recante “Modifiche alla Parte II della Costituzione”, approvata in seconda deliberazione e in via definitiva dal Senato il 16 novembre 2005. Come è noto, il corpo referendario, chiamato a pronunciarsi ai sensi dell’art. 138, 2° co., Cost., non l’ha avallata, con la conseguenza che il procedimento aggravato si è concluso con un nulla di fatto.
Male, ha commentato qualcuno, bene hanno affermato i più, nella convinzione che quel testo avrebbe alterato i caratteri originari della legge fondamentale, senza peraltro risolvere i problemi che l’iniziativa riformatrice aveva determinato . Ed è appena il caso di ricordare che l’antecedente modifica della Costituzione, introdotta con la legge costituzionale 18 ottobre 2001, n. 3, a detta di molti ha finito per complicare, piuttosto che risolvere, le questioni inerenti i rapporti Stato-Regioni-Enti locali: perché non adeguatamente meditata, ma soprattutto perché la si è letta con la preoccupazione di essere coerenti, oltre il necessario, con il passato, dominato da concezioni giacobine dello Stato e del relativo ordinamento .
Mentre ci si sarebbe dovuti discostare, guardando non tanto alla forma di governo, quanto alla forma di Stato: non al potere e alla sua articolazione, ma alle soggettività sostanziali – irriducibili alla nozione astratta di popolo -, le sole in grado di dare spazio e vita al molteplice, pur in un contesto istituzionale sicuramente ancorato all’idea di unità .
Sono ragionamenti che – a quanto mi risulta e per come personalmente li percepisco – appaiono inconsueti, al limite del tutto sottovalutati : tant’è che parlare seriamente della “funzione sovrana” del tributo non mi pare scontato, mentre si continuano a riproporre letture e riletture ideologiche della Costituzione come se, in un simile testo, si dovessero tradurre visioni del mondo concepite alla stregua di a priori e non, invece, concezioni di parte che si debbono combinare per consentire a ciascuno di vivere insieme agli altri in modo civile . Insomma, è sempre l’oraziano est modus in rebus ad essere ignorato e, con esso, il senso della storia, che non è chiara, lineare e visibile, ma carsica. Ovviamente discontinua e problematica, perché dominata dalle passioni , come dominata dalle passioni è una qualunque discussione sui fatti della vita, che trovano, quale termine di riferimento necessitato, pure la Costituzione. Una Costituzione qualunque .
Se è di tutto questo e d’altro ancora che si parla, domandarsi se Gianfranco Miglio – il suo pensiero e il suo insegnamento – sia attuale non solo è opportuno: è indispensabile . È indispensabile perché il legislatore ha conferito, con la legge n. 42/2009, la delega al Governo per attuare l’art. 119 Cost., il cui 1° co., nel testo del 1948, disponeva inutilmente così: “Le Regioni hanno autonomia finanziaria nelle forme e nei limiti stabiliti da leggi della Repubblica, che la coordinano con la finanza dello Stato, delle Province e di Comuni”10; mentre il 1° co. vigente stabilisce – vedremo, un domani, se inutilmente ancora o no: perché, tra il dire e il fare, c’è di mezzo il mare11 – che “i Comuni, le Province, le Città metropolitane e le Regioni hanno autonomia finanziaria di entrata e di spesa.
Una conclusione e una premessa: per una chiave di lettura
Nel discorso di fine anno, pronunciato dal Presidente della Repubblica a reti unificate alle 20.30 del 31 dicembre 200913, questi ha parlato di “riforme” [che] non possono essere tenute in sospeso”. Più a lungo rinviate. L’orizzonte è stato il più ampio, perché ha abbracciato temi e problemi della forma di Stato e di governo, sui quali maggioranza e opposizione dovrebbero trovare almeno un terreno comune di discussione.
Ragionando, per l’appunto, con preoccupazioni analoghe, Gianfranco Miglio ebbe ad osservare a suo tempo – dopo aver ricordato il pensiero espresso da Quintino Sella in Parlamento – che, “se si considera tutta questa porzione di umanità, controinteressata ad ogni cambiamento, si deve concludere che le probabilità di riforme costituzionali sono vicine allo zero. Se devono essere tentate, bisognerà farle contro la volontà dell’opinione pubblica: senza cercare un consenso che non esiste. – Io sono, professionalmente, un tecnico delle istituzioni: se mi chiedono se si può modificare la Costituzione italiana, la mia risposta è: no.
Con la riserva di un pertugio positivo, molto esiguo, che illustrerò al lettore, a partire da questo momento”. Se si prescinde dal riferimento a un progetto dato, tale pessimismo di fondo manifestò pure l’allora Presidente della Corte costituzionale Livio Paladin, al termine di un’intervista televisiva concessa a Giorgio Bocca.
Qualcuno potrà rimanere stupito. Vorrà discorrere, dal punto di vista storico-politico e storico-istituzionale, del perché il Parlamento non è riuscito finora a realizzare quel che diffusamente si sostiene. Per quanto mi riguarda, la questione non è, in un certo senso e per molti aspetti, né di carattere politico né di natura tecnica. È essenzialmente di indole culturale, perché connessa al modo secondo il quale, nella storia d’Italia, si è venuto articolando il rapporto autorità-libertà, il quale non solo non è superato come punto di vista, ma anzi contraddistingue indefettibilmente un qualunque consorzio civile.
Di tutto questo ha scritto – inutilmente – Piero Gobetti, il quale – discutendo della “rivolta dei contribuenti” – notò: “In Italia lo Statuto, che era stato per certi aspetti un frettoloso espediente piemontese nel ’48, non risolse, ma fece appena balenare il problema. In Italia il contribuente non ha mai sentito la sua dignità di partecipe della vita statale: la garanzia del controllo parlamentare sulle imposte non era una esigenza, ma una formalità giuridica: il contribuente italiano paga bestemmiando lo Stato: non ha coscienza di esercitare, pagando, una vera e propria funzione sovrana. L’imposta gli è imposta. Il Parlamento italiano, derivato, attraverso la Carta e la costituzione belga, dal modello inglese esercita il controllo finanziario come esercita ogni altra funzione politica. È demagogico, parlamentaristico sin dal suo nascere perché è nato dalla rettorica, dall’inesperienza, dal mimetismo”.
Ma non basta. L’affermazione che ancor più conta – perché è un corollario che spiega, al di là di ogni ragionevole dubbio, il destino di un Paese che non conosce la profonda rilevanza istituzionale del principio di responsabilità, costitutivo della democrazia – è data da una ulteriore annotazione, normalmente passata sotto traccia: “Il problema della pubblica amministrazione era stato risolto in Inghilterra con la creazione di un burocrazia non numerosa ferreamente sottoposta alla direzione dei lords insigniti di cariche direttive onorifiche. In Italia il problema della burocrazia non è più solubile dal momento che per fare gli italiani abbiamo dovuto farli impiegati, e abbiamo abolito il brigantaggio soltanto trasportandolo a Roma”.
In buona sostanza e in poche parole, conta, nella storia di un popolo, il processo evolutivo delle idee e delle azioni; contano le concezioni di fondo, la teoria dello Stato che c’è, ancorchè occultata o semplicemente annebbiata da un discorrere equivoco.
Ed è senz’altro non controverso, ad esempio, che il costituzionalismo nostrano nasce come ottriato e che, comunque la si pensi, neppure la legge fondamentale del 1946-1947 si può comparare, quanto alla genesi, a quella americana, che seguì la Dichiarazione d’indipendenza del 4 luglio 1776, nella quale sta scritto, tra l’altro: “Noi riteniamo che sono per se stesse evidenti queste verità: che tutti gli uomini sono creati uguali; che essi sono dal Creatore dotati di certi inalienabili diritti, che, tra questi diritti, sono la Vita, la Libertà, e la ricerca della Felicità; che per garantire questi diritti sono istituiti tra gli uomini governi che derivano i loro giusti poteri dal consenso dei governati; che ogniqualvolta una qualsiasi forma di governo tende a negare questi fini, il popolo ha diritto di mutarla o abolirla e di istituire un nuovo governo fondato su tali principi e di organizzarne i poteri nella forma che sembri al popolo meglio atta a procurare la sua Sicurezza e la sua Felicità”.
Parole d’altri tempi e finanche retoriche? Dipende dalla capacità o meno di intenderne i presupposti. I quali rivelano, ancora oggi, quanto attuale e forte sia la giuridicità della Costituzione del 1787, la quale ha consentito – o, più esattamente, richiesto – che al centro dell’esperienza istituzionale fosse collocato, in varie forme e con implicazioni connesse alla democrazia diretta, il rapporto giuridico d’imposta: questo sconosciuto, ove si scorra la storia costituzionale d’Italia
Sensibilità storico-istituzionale
Per comprendere il significato di una tale riflessione critica, è indispensabile tenere conto del fatto che serve una qualche sensibilità storico-istituzionale. Vera e non soltanto dichiarata formalmente, perché – tanto per limitarsi a un esempio – non si può confondere l’ascoltare con l’intendere. Qui rileva, ovviamente, l’intendere. Il comprendere.
È la conoscenza analitica delle vicende che hanno posto le premesse più lontane e quelle prossime dell’unificazione d’Italia che ha consentito di notare che “le difficoltà delle ‘riforme’ nascono essenzialmente dal modo in cui il ‘presunto’ Stato nazionale italiano è stato ‘messo insieme’”. Con lo sguardo rivolto alla “sottostante realtà effettuale”, Miglio osserva – non crea artatamente – le differenti Italie: essenzialmente, del Nord e del Sud, diverse dal punto di vista geo-economico ed agricolo. “Mentre il Settentrione, con la Pianura padana, dispone di un’area irrigua altamente produttiva (ivi comprese le paludi trasformate in risaie) frutto della stratificazione generazionale dell’opera di contadini e proprietari intraprendenti, e base per uno sviluppo imprenditoriale senza limiti, il Sud è caratterizzato da scarsi terreni coltivabili, franosi e montagnosi e non irrigabili, per la presenza di corsi d’acqua soltanto torrentizi, nonché per il clima estivo, spesso torrido. Soltanto poeti e viaggiatori hanno esaltato (con ragione) il bellissimo paesaggio delle regioni e delle coste del Meridione: ma la valutazione economica delle risorse agricole va condotta evidentemente su altre basi”.
Che società, economia e diritto rappresentino un sistema di relazioni interdipendenti è risaputo, al pari della circostanza che la normatività plurisecolare è essenzialmente definita dai mores. Dal costume, vale a dire – stando alla più elementare delle definizioni – dalla “maniera d’agire generale, stabilita dall’uso”, il quale è condizionato, per non dire costituito, dal modo di pensare e di ragionare.
Dalla psicologia individuale e collettiva, stando alla quale – è difficile dissentire – “per i cittadini italiani la sicurezza e la prosperità prevalevano (e prevalgono tuttora) sui valori morali dell’autogoverno”. D’altra parte, “la classe dirigente delle regioni più povere del Sud – anziché dedicarsi all’intrapresa economico-produttiva – si è specializzata in misura massiccia (laurea in giurisprudenza o in scienze politiche) nelle tecniche di gestione e di controllo degli innumerevoli uffici pubblici, che lo statalismo fascista andava incessantemente moltiplicando”. Tecniche di gestione incentrate – lo sono tuttora – sul “burocratese”, concepito, con involontaria ironia, come il “linguaggio della pubblica amministrazione”, che parla senza farsi comprendere.
È di questa collaudata ottusità che Miglio ci dice, dovunque. E può finire anche per sorprendere chi si attende, là dove contrappone il Nord al Sud del Paese, da parte sua la ripresa e il rilancio di stereotipi, quali l’antimeridionalismo.
Nulla di più falso, infatti, dal momento che egli non manca di sottolineare, costantemente con riferimento ai vari periodi storici, un dato che rappresenta un continuum: “il Meridione – ci dice – verrà sacrificato e il Nord invece privilegiato”. Così, nella seconda metà dell’Ottocento; durante il primo conflitto mondiale, quando “furono seicentomila i morti e due milioni i feriti. E i poveri fantaccini del Sud furono gettati a bagnare con il loro sangue i sassi del Carso, per assicurare il lontano confine di un regno, il quale nulla aveva fatto a favore del loro livello di vita”; al tempo dell’intervento straordinario dello Stato nel Mezzogiorno allorché rimase “invariata la distanza che separa Nord e Sud”: allora, “malgrado questo panorama di corruzione, il paese progredì: la lira era una delle valute forti, i lavoratori agricoli erano scesi a poco più di quattro milioni, e vivevano molto meglio di quanto mai era accaduto. E contemporaneamente si ebbe una vera e propria rivoluzione industriale: meno che nel Sud, dove fallì il progetto di creare un processo auto propulsivo imprenditoriale; il divario fra le due parti del presunto ‘Stato nazionale’, continuò ad accrescersi.
L’origine della perdurante arretratezza del Mezzogiorno dipendeva dal sistema di governo, più che dalle leggi dell’economia”. Dunque – si tratta di un giudizio severo, concepito in termini di spietato realismo -, “le iniziative degli uomini politici non hanno mai collocato il riscatto del Sud – della così detta ‘Bassa Italia’ – fra i programmi governativi cui attendevano, almeno fino al secondo dopoguerra (quando però il loro interesse per il Mezzogiorno si legò a tutt’altre condizioni).
Tutte le volte che iniziative economiche e finanziarie contrapponevano gli interessi del Mezzogiorno agricolo al Settentrione industriale, era sempre questo secondo ad essere privilegiato”.
Tutto qui? Nient’affatto, perché non c’è lato della medaglia che non abbia il suo rovescio, un vantaggio qualunque un corrispondente svantaggio. Una simile politica – o, se si preferisce, non-politica – ha avuto, come effetto, quello di far sì che “le classi dirigenti delle regioni d’Italia meno privilegiate, anziché sviluppare le iniziative economico-produttive, si sono dedicate a coltivare il pubblico impiego, occupando tutti i posti rilevanti del sistema politico-amministrativo. –
Questo ceto si è diffuso nel paese, come una solida ragnatela, e tutela (presupposto del suo potere) le regole di comportamento dell’amministrazione: sono loro i difensori dell’‘unità’ dello Stato (intesa in senso deteriore, perché rivolta ad asservire i cittadini)”.
Il diritto amministrativo, non a caso, è diritto che unifica. Più esattamente, rende uniforme ciò che è naturalmente distinto, perché segue la logica di Procuste. Atto, provvedimento e procedimento; riserva di legge e principio di legalità formale e sostanziale, e chi più ne ha più ne metta, costituiscono l’elemento più forte di continuità dispiegato dallo Stato moderno all’interno dello Stato costituzionale contemporaneo, secondo logiche magistralmente descritte da Alexis de Tocqueville.
Così, non ci si può stupire se le riforme non riescono mai a tradursi in valore aggiunto per le istituzioni, ove di esse si abbia una visione alta e d’insieme e si eviti di concentrarsi su successi singolari e frammentari. Così, non si può non convenire con Miglio, quando si chiede: “È possibile spezzare questo ceto [di burocrati] ed i suoi privilegi?”, e risponde: “Onestamente credo di no. Per un certo tempo io ho sperato che almeno la sua parte superiore – i commis d’État – potessero diventare il nucleo di aggregazione di un ‘nuovo Stato’, sensibili ai mutamenti che si producono in un sistema amministrativo attento al ‘privato’ (come in passato privilegiava il ‘pubblico’).
Oggi ho una sola speranza: che si possa dividere questo ceto in parti contrapposte, facenti capo a sistemi burocratici divisi e fra loro concorrenziali: sostituire cioè il vantaggio della concorrenza a quello torbido e collusivo del potere unitario e monolitico”.
Con una precisazione, tuttavia, di valore non secondario: l’Italia non ha mai avuto – a differenza di altri Paesi – una burocrazia degna di questo nome43. Il che rappresenta una difficoltà ulteriore e spiega come ogni aspirazione al cambiamento risulti invariabilmente gravata da quella che mi sento di definire come un’ipoteca causidica, che ha molto a che fare con la demagogia. Demagogia che produce effetti sistematicamente deleteri perché, rendendo impossibili decisioni appropriate, conduce alla deriva in nome del post hoc ergo propter hoc: del fatto che si sostituisce al criterio della tempestività e della adeguatezza.
Ragionamenti
Per quanto mi riguarda, ancorché sia ben consapevole dell’esistenza di punti di vista assai critici nei confronti degli assunti di Gianfranco Miglio, a me sembra incontestabile che dalle sue pagine si possano trarre indicazioni di grande momento proprio sul versante della teoria delle forme di Stato: perché egli oppone al potere burocratico, autoreferenziale e delegittimato, che ha prodotto istituzioni in crisi, le soggettività sostanziali; all’idea di persona giuridica antepone quella di persona fisica o, se si preferisce, di persona tout court, in nome di un individualismo che – mi si perdoni la ridondanza – si incentra sul valore dell’individualità. In nome della quale e per la quale si deve decidere e non, invece, soprassedere, condizionati da interessi marginali, se non addirittura “inconfessabili”.
Tant’è che, proprio alla luce di tali o analoghe considerazioni, vien fatto di pensare che il percorso riformatore italiano, mutatis mutandis, abbia non poco a che fare con questa scenetta: “Don Gonzalo, ingolfato fin sopra i capelli dalle faccende della guerra, fece ciò che il lettore s’immagina certamente: nominò una giunta, alla quale conferì l’autorità di stabilire al pane un prezzo che potesse correre; una cosa da poterci campar tanto una parte che l’altra.
I deputati si radunarono, o come qui si diceva spagnolescamente nel gergo segretariesco d’allora, si giuntarono; e dopo mille riverenze, complimenti, preamboli, sospiri, sospensioni, proposizioni in aria, tergiversazioni, strascinati tutti verso una deliberazione da una necessità sentita da tutti, sapendo bene che giocavano una gran carta, ma convinti che non c’era da far altro, conclusero di rincarare il pane. I fornai respirarono; ma il popolo imbestialì”. È quel che probabilmente avverrà ove il processo riformatore dovesse avviarsi; senza dubbio in sede di attuazione della legge di delega n. 42/2009 sul federalismo fiscale, destinata a “mettere a fuoco”, nel senso letterale del termine, il rapporto Nord-Sud, da rivedere, per non dire reinventare, in nome del principio di responsabilità. Fino ad ora, infatti, l’amministrazione è stata un peso e si può concordare con chi rilevò che “male facevano codesti uomini di Governo ad inveire contro la burocrazia do non esercitavano il potere, come male fecero poi a scaldarsi nelle superflue difese”.
È la prova provata di come il problema di fondo, per il nostro Paese, sia rappresentato dalla burocrazia – che produce una mentalità burocratica e il burocratese –, la quale ha sempre ostacolato ogni processo di riorganizzazione dello Stato: dello Stato-apparato e dello Stato-ordinamento. Lo ha fatto negli anni ’70 del secolo scorso, quando furono istituite le Regioni ordinarie; lasciando cadere la delega legislativa per la riforma dell’amministrazione centrale e reagendo alla abrogazione referendaria di alcuni ministeri; svuotando, progressivamente, i trasferimenti di funzioni amministrative statali alle Regioni disposti dalla legge di delega n. 382/1985 e dal D.P.R. n. 616/1977; imponendosi alla politica, secondo uno schema collaudato, che Tocqueville descrive plasticamente quando afferma che “la perfezione della macchina amministrativa costruita da Bonaparte è provata dalla facilità con cui essa funziona quasi senza motore, come è stato dimostrato dalle rivoluzioni successive, o con cui funziona nelle mani fiacche di mediocri imbecilli come quelli che governano oggi”. L’amministrazione italiana non sarà certo quella francese; tuttavia, al pari di quella francese, è pur sempre una “macchina”.
Dunque, a parer mio il discorso di Miglio ha, quale suo termine di riferimento ultimo e causa genetica della sua personale elaborazione progettuale, l’amministrazione e ciò che la medesima rappresenta nel suo essere essenzialmente apparato burocratico autoreferenziale e non, invece, complesso di strutture organizzative serventi. Non a caso si dice, comunemente e con triste ironia, che prima viene l’organo e poi la funzione, in una prospettiva che è strutturalmente parassitaria. Nell’ottica e secondo il linguaggio che preferisco, qui si trova materializzata l’inversione del rapporto tra mezzo e fine: tra forma di Stato e forma di governo, categorie senz’altro discutibili ed approssimative là dove si tratta di indagare e spiegare una complessa realtà istituzionale, ma ancora adeguate allo scopo che qui si persegue, che è quello di comprendere.
Inutile dire – lo si è già accennato ed è comunque notissimo – che Miglio ha creduto di poter infrangere il dogma dell’unità amministrativa attraverso la riforma in senso federale dello Stato: attraverso una modifica di carattere sostanziale dell’organizzazione costituzionale, da modellare sulla forma di governo direttoriale. D’altra parte, era fermamente convinto che il dibattito sul federalismo in Italia e le concezioni confusamente affermate non fossero né condivisibili né concretamente percorribili. Tant’è che, “quando la Lega è forte di consensi elettorali, si discute di federalismo, quando viene data per spacciata il dibattito ritorna sui binari dei primi anni Ottanta: sistema elettorale, presidenzialismo, governo del premier. Ciò che non sembra invece cambiare affatto è il risultato: di riforme si parla e basta”.
La spiegazione era ed è convincente, soprattutto se la si raccorda con una ulteriore, significativa puntualizzazione, secondo cui – è sempre Miglio che parla – “i concetti giuridici fondamentali del diritto pubblico non esistono più perché non sono più chiari e distinti come un tempo. Popolo, governo e territorio, cioè i tre elementi dello Stato, sono infatti in via di ridefinizione e quindi utilizzare le vecchie categorie provoca solo confusione.
Ma l’utilizzazione dei vecchi concetti o delle formule giacobine ripetute dalla nostra classe politica come un mantra (quali ad esempio ‘la Repubblica è una e indivisibile’) non riuscirà a fermare i grandi mutamenti storici che stiamo vivendo”. Il che potrà pur accadere, in un tempo ormai prossimo o ancora lontano non so, ma credo soltanto allorché ci si sarà liberati di quel che rimane ancora un dogma all’interno della nostra esperienza e tradizione costituzionale: liberati dal dogma dell’imposizione fiscale, che genera sudditanza e non esprime sovranità in capo al contribuente.
Infatti, “il tributo è concordemente visto come espressione della sovranità pubblica (e, di riflesso, come espressione di sudditanza)”.
Data una simile opzione – che consiste nel rileggere alcuni scritti di Miglio alla luce non dei modelli e schemi organizzativi propri dell’assetto dei supremi organi dello Stato, ma dei concetti fondamentali del diritto pubblico secondo l’ottica del rapporto autorità-libertà e del nesso mezzo-fine -, qui vale la pena di dar conto di alcune ulteriori puntualizzazioni, che mostrano come egli avesse ben presente – ancorché in termini per me inadeguati – la connessione che esiste tra potere di levare le imposte edecisioni di spesa, e ciò nell’alveo di una collaudata esperienza ordinamentale.
Esperienza la quale rivela “la posizione di debolezza che l’individuo ha nei confronti dello Stato moderno”, dominato dalla “tirannia fiscale, amministrativa, politica, che un gruppo di uomini esercita su di un altro in nome dello Stato”, oggi in crisi. Tuttavia, rivolgendosi al suo interlocutore, Miglio si chiede: “Se come poc’anzi hai evidenziato, le federazioni classiche vanno verso l’unità politica e i Paesi a statualità classica unitaria verso il decentramento politico per tendere verso un’unica forma di Stato, bisogna concludere che non esiste questa crisi del diritto pubblico moderno: convergere verso lo stesso punto, infatti, indica rafforzamento e non crisi. Ma allora come si spiega questa Babele di linguaggi?”.
In realtà, un tale trascorrere dal molteplice all’uno e dall’uno al molteplice esprime un moto pendolare del tutto naturale, come è naturale mutare stile di vita e gusti man mano che si cresce o semplicemente perché il cambiamento è nel divenire della storia e di tutto ciò che ha a che fare con l’uomo e la sua finitezza. Secondo Augusto Barbera, “è una crisi derivante dalla difficoltà della ‘transizione’, dal declino dello Stato moderno e delle sue categorie, cosa quest’ultima che come professore di diritto costituzionale le avverto in modo particolare.
Ma ritengo che, in ultima analisi, la crisi italiana sia una devastante crisi del sistema politico”. D’altra parte, ove si consideri il sistema politico nostrano nel suo complesso e nelle sue varie articolazioni e si rifletta sul modo secondo cui è selezionata la classe dirigente, vien davvero da rabbrividire. Tanto più se si ragiona alla luce di quel che Miglio andava dicendo: “che nessun sistema economico può funzionare se l’individuo è sicuro che avrà un reddito ovunque e comunque”; “che, con la fine del secolo, ” viene meno la “vera ragione d’essere allo Stato moderno: viene meno il presupposto della guerra”; che “la fine della guerra, che verrà sostituita dai conflitti di tipo economico, segna dunque la liquidazione dello Stato moderno, e io credo che l’avvento di un sistema contrattuale sia a questo punto una necessità storica”
L’idea di contratto fu percepita come qualcosa di dissacrante perché si calò, come un macigno, all’interno di un quadro di riferimento culturale impregnato di giacobinismo: “avendo trionfato i centralisti giacobini sui federalisti girondini nella Rivoluzione francese, ‘il potere distrugge la memoria dei vinti’)”. Vi furono – a mio sommesso avviso – fraintendimenti dovuti principalmente al fatto di prescindere, sempre e comunque, dalla realtà fattuale, secondo cui – piaccia o non piaccia – a qualunque latitudine e longitudine chi paga vuole conoscere il perché e la destinazione del tributo.
E così è, vuoi nel caso in cui vi sia una traccia, in un testo qualunque, della regola del consenso all’imposta, vuoi nel caso in cui una simile proposizione faccia difetto: si tratta, infatti, di un principio elementare, senza del quale è arduo qualificare un ordinamento come autenticamente democratico. Sicché, da questo punto di vista, non mi pare convincente l’assunto di Miglio secondo cui “lo ‘Stato sociale’ è… un prodotto dello ‘Stato nazionale’ centralizzato di grandi dimensioni, ed è un sistema, alla lunga, fallimentare”: per la semplice ma decisiva ragione che in fallimento può andare qualunque sistema organizzato, pubblico o privato che sia, quando opera indipendentemente dal rapporto entrate-spese o – se si preferisce – quando le spese sono decise prescindendo dal criterio della sostenibilità. Dal quel che l’art. 97 Cost., nella sua solare semplicità, definisce come “buon andamento”.
A dire il vero – questo spiega perché ho scelto di passare sotto silenzio tutto ciò che appartiene alla dimensione descrittivo-classificatoria -, ciò che conta è la serie di puntualizzazioni che hanno ad oggetto ruolo e funzione del contribuente, dal momento che, se si riflette anche solo un istante, non può verosimilmente sorprendere che si scriva che “è inammissibile che qualcuno decida per se stesso con i soldi degli altri” oppure che “chi paga più tasse ha un maggior diritto degli altri a determinare la destinazione della spesa pubblica”: perché ha un suo profondo significato – finanche nella dimensione della pura e semplice provocazione – affermare che “esclusivamente chi vive del solo sostengo pubblico, e non contribuisce a creare alcuna ricchezza con il proprio lavoro, non dovrebbe avere il diritto di voto”.
E così dovrebbe essere pure per l’evasore: quantomeno per quello totale. Da ciò, in ogni caso, l’impulso a guardare all’amministrazione e alle sue esigenze di riforma, relativamente alle quali, se è vero – si può sostenere – che “il vantaggio dei regimi federali dal punto di vista amministrativo [sta] nel fatto che questi accentuano molto i ‘doveri di milizia’ dei cittadini (chiamo ‘milizia’ le prestazioni che si fanno senza guadagnare un soldo)”, è soprattutto vero che i medesimi possono consentire, attraverso un avvicinamento della leva fiscale al contribuente e la visualizzazione dei canali di spesa, le decisioni comparativamente migliori: nel senso di più efficienti. Senza con ciò nascondersi le difficoltà che comunque si incontrano, perché – è un rilievo davvero significativo, che prescinde dalle concezioni generali in tema di burocrazia – “l’insuccesso della burocrazia europea non è certamente imputabile all’incapacità del personale.
È stato piuttosto l’esito dell’inevitabile debolezza di qualsiasi gestione degli affari pubblici. L’assenza di criteri in grado di accertare in modo netto il successo o l’insuccesso di un funzionario nell’esecuzione dei suoi doveri crea problemi insolubili. Essa annienta l’ambizione, distrugge lo spirito di iniziativa e qualsiasi incentivazione a far più del minimo richiesto. E spinge il burocrate a porre attenzione alle circolari e non al successo tangibile e reale”.
È un discorso che, oggi, dopo il cataclisma della finanza mondiale e il fallimento accertato di un sistema di competenze teoriche che ha prodotto danni senza conseguenze di sorta in termini di responsabilità a carico di chi li ha causati, invece di chiudersi si apre, come dimostra il dibattito in atto. Non sempre limpido e onesto.
Che cos’è il federalismo
“Oggi ho una sola speranza: che si possa dividere questo ceto in parti contrapposte, facenti capo a sistemi burocratici divisi e fra loro concorrenziali: sostituire cioè il vantaggio della concorrenza a quello torpido e collusivo del potere unitario e monolitico”. È, questo, una sorta di incipit, che sta alla fine di una serrata analisi del reale, il quale ha squadernato, dinanzi agli occhi dell’osservatore e del lettore, le mille incongruenze prodotte da una dottrina del potere fondata esclusivamente sull’idea di dominio.
Inutile fare citazioni: sarebbero scontate. Opportuno precisare, comunque, che sono gli esiti istituzionali di simili “visioni del mondo” a confermare la bontà delle affermazioni che indicano le riforme strutturali del Paese come qualcosa di essenziale e non più differibile, pena la decadenza. Allo scopo, si invoca il federalismo, che dà voce al molteplice, senza sacrificare l’unità. In linea generale, secondo Miglio “sono ‘federalisti’ tutti colori i quali rifiutano il sistema centralizzato dei poteri, praticato in questo paese, o anche soltanto avversano le procedure autoritative che la burocrazia ricava, e oppone ai cittadini, da una visione ‘unitaria’ della gestione della cosa pubblica”.
Dunque, in estrema sintesi, federalismo versus burocrazia. Il federalismo chiama a giudizio la burocrazia, comunemente intesa come “il complesso degli uffici gerarchicamente ordinati che svolgono funzioni di amministrazione”. È una definizione che gela e ancor più gela il rilievo di chi ha scritto – a proposito della burocrazia in Italia – che “poche tematiche riescono a enfatizzare le storiche fragilità del caso italiano come la questione burocratica. La burocrazia appare il segno tangibile di una modernizzazione mai davvero compiuta nell’itinerario nazionale; mentre in un’agenda politica sempre aperta a questa pagina, ben lungi dall’essere la weberiana ancella di un vigoroso sviluppo capitalistico, diventa un freno alla competitività nazionale”.
Miglio non crede, comunque, che il sistema da attuare possa ragionevolmente derivare da quel che comunemente si pensa e si dice, tanto è generico e confuso, e pieno di contraddizioni; né che lo si possa ricavare, per implicito, dalle esperienze diffuse in altri Paesi, quali la Germania e gli Stati Uniti, dal momento che quei sistemi annoverano al loro interno istituti che contraddicono una coerente idea federale. Ciò in quanto – scrive – “quasi tutte le Costituzioni ‘federali’ consistono in istituzioni annesse a un sistema politico principale, ispirato a una logica diversa: generalmente non-territoriale ma parlamentare-partitocratica. Così che mentre questo ordinamento dominante costituisce l’asse primario su cui si crea e si gestisce il potere decisivo, le istituzioni federali funzionano come apparati accessori, subordinati all’esito delle lotte e delle scelte che si producono al livello superiore.
Tale soggezione si concreta generalmente nell’esistenza di una ‘seconda camera’ – di un ‘Senato’ delle regioni (degli Stati, dei Cantoni eccetera) – che però rappresenta i membri della Federazione in misura molto attenuata: è il caso del Senato americano, del Bundesrat tedesco e del Consiglio degli Stati elvetico”. Di contro, “la struttura federale è interna al sistema politico-amministrativo, e ne costituisce il solo asse portante. L’unità della Repubblica federale non proviene da una fonte esterna (e contraddittoria) assembleare-partitocratica, ma sorge dalla stessa struttura federale e dalla sua capacità istituzionale di comporre e superare i particolarismi, e produrre decisioni generalmente condivise”.
Questo è un vero, grande insegnamento, anche se – come dirò tra breve – la purezza degli istituti non è di questo mondo e bisogna sempre fare i conti con la storia, che è quella che è. Ma è bene – anzi, è essenziale – avere consapevolezza di quali sono i compromessi e, dunque, le criticità di un dato sistema. Del proprio, innanzi tutto; e Miglio ne spiega le ragioni, dopo aver sinteticamente chiarito quali sono i requisiti del vero federalismo.
Non è vero federalismo quello tedesco. Non lo è, in primo luogo, sul piano finanziario, poiché “il Grundgesetz, approvato dal ‘Consiglio Parlamentare’ della Germania Occidentale l’8 maggio 1949, poggiò quindi su un forte sistema di tassazione centralizzato, e di imposte ‘congiunte’, la cui chiave di volta è però costituita dal diritto-dovere della Federazione di elargire contributi ai Länder economicamente più deboli, per ‘equipararli’, senza interpellare gli altri Länder. E così il sistema federale-fiscale (e il principio basilare della ‘diversità’) vanno in fumo, come è già accaduto negli USA, con il sistema dei grants-in-aid, che hanno corrotto l’indipendenza degli States”.
A ciò si aggiunga – su un piano generale – il fatto che “la Costituzione tedesca è tutta un intreccio di principi antifederali”, come dimostrerebbero (il condizionale è mio) i modi secondo i quali sono ripartite tra Bund e Länder la funzione legislativa e quella amministrativa, coerenti con un modello di “federalismo cooperativo”. Sicché, “l’unico principio ‘federale’, che si trova realizzato nell’attuale sistema germanico, è l’abitudine alla contrattazione: si negozia a tutti i livelli”. Circostanza non di poco conto, mi sembra di poter dire!.
Un analogo ordine di considerazioni vale poi – secondo Miglio – quanto al federalismo statunitense. Infatti – preferisco usare le sue parole, per ragioni di chiarezza e di sintesi -, “un problema solo apparentemente diverso è quello che si presenta nella Costituzione degli Stati Uniti. Anche qui, dopo un periodo in cui prevalse un ordinamento radicalmente pluralistico (1776-1787), i cosiddetti federalisti (che oggi non sono più considerati tali, perché, come Hamilton, miravano a edificare uno Stato ‘unitario’) vararono l’attuale Costituzione americana. Le cose andarono avanti con equilibri alterni tra potere federale e Stati, e addirittura attraverso una guerra civile. Finché si arrivò alla grande crisi economica del 1929. In quella congiuntura di diffuso smarrimento, il New Deal di Franklin Delano Roosevelt ebbe buon gioco a far accettare, dagli Stati, aiuti finanziari e interventi del governo federale, che gradualmente trasformano gli Stati Uniti in una repubblica presidenziale accentrata non diversa dalle altre”.
A suo dire, è dall’anno 1970 del secolo scorso che ha ripreso vigore “una tendenza neofederalista”, espressiva di un federalismo competitivo piuttosto che cooperativo, “sottoprodotto del grande Stato unitario”. Tuttavia, il vento è nel frattempo cambiato. Non il vento ideologico o altro di analogo. Sono cambiate le condizioni fattuali e, in particolare, quelle di carattere politico ed economico. Ha ripreso vigore – un vigore inusitato – il terrorismo e la crisi della finanza mondiale ha riportato in auge, nonostante tutto e a prescindere dalle patetiche e tristi argomentazioni di economisti liberisti irriducibili, l’insegnamento di John Maynard Keynes: cui ha finito per ispirarsi il Presidente Obama.
Ma è appena il caso di osservare che non c’è sistema politico-istituzionale che vada esente dall’obbligo di farsi carico delle crisi politiche ed economiche, che producono, inevitabilmente, convergenze al centro, in funzione solidaristica, e non fughe verso una periferia strutturalmente debole.
Non sorprende, tuttavia, perché mai “quello svizzero è un federalismo vero”. È vero perché riguarda comunità ristrette; perché è un insieme di “stirpi germaniche, francesi, italiane e reto-romanee”; perché, anche a motivo della conformazione dell’habitat e della collocazione geografica, è rimasto ben saldo il “principio della ‘territorialità’”; perché è nel costume di quelle genti il ricorso sistematico a istituti di democrazia diretta e via dicendo97. Potrei aggiungere anche, sul piano personale, che sono terre nelle quali si è ampiamente diffusa la Riforma, e l’impronta calvinista – mi limito a un superficiale accenno – non si può certo negare che abbia avuto una sua incidenza, con effetti anche di natura istituzionale. Ben altro discorso si può e, anzi, si deve fare per “luoghi” – sono in Italia: per la precisione, ove si guardi al racconto, lombardi – relativamente ai quali, proprio al tempo della Riforma o giù di lì, “i decreti, tanto generali quanto speciali, contro le persone, se non c’era qualche animosità privata e potente che li tenesse vivi, e li facesse valere, rimanevano spesso senza effetto, quando non l’avessero avuto sul primo momento; come palle di schioppo, che, se non fanno colpo, restano in terra, dove non danno fastidio a nessuno”. Il discorso – si badi – aveva ad oggetto la “grande facilità con cui li seminavano que’ decreti”: un dato istituzionale, sul quale ragionare, per stabilire quali sono i caratteri e i limiti di una comparazione possibile o impossibile.
Un esempio illuminante
Infatti, vi sono, tra i tanti, eventi che possono assumere un valore emblematico perché aiutano a comprendere le condizioni, di fatto e psicologiche, al cui interno si collocano le nostre azioni. Ci possono aiutare a comprendere i perché di tante opportunità sprecate, sistematicamente disattese quando le circostanze di tempo le hanno poste all’ordine del giorno: nell’agenda del Parlamento, del Governo, della Corte costituzionale, la quale ha mancato, con rigore estremo, al compito di correggere le debolezze di altri supremi organi dello Stato.
D’altra parte, è sufficiente un esempio per chiarire queste annotazioni critiche di sintesi e, al limite, poco comprensibili per i non addetti ai lavori, fermo restando che a nulla vale opporre la circostanza che l’Italia non è il Canada, perché il primo è uno Stato regionale, il secondo uno Stato federale, trattandosi – nella migliore delle ipotesi – di obiezioni formali. E poi, tutti sanno che lo Stato federale è “un sottotipo dello Stato unitario”, dovendosi riconoscere che qui pure “la sovranità (e dunque la statualità) spetta per definizione allo Stato centrale”.
Ebbene, nel 1996, in forza di quanto dispone l’art. 53 della Loi sur la Cour, il Governo federale del Canada pone alla Corte suprema tre quesiti connessi all’ipotesi di secessione del Québec. Quel che conta non è la questione relativa alla secessione né l’insieme delle vicende politico-istituzionali del Canada né la determinazione assunta dal giudice interpellato. Contano i ragionamenti prospettati nel renvoi, attraverso i quali viene offerta una sintesi di come la Corte Suprema concepisce il diritto costituzionale di quel Paese, per come si è venuto edificando nel tempo. Inutile dire, fin d’ora, che il federalismo è definito nei suoi elementi costitutivi: in termini assiologici – mi viene voglia di dire – piuttosto che organizzativi.
La Corte rende il suo parere nel 1998: “Quattro punti vengono indicati dalla Corte come caratterizzanti il sistema canadese: il federalismo; la democrazia; il costituzionalismo e il principio di legalità; il rispetto delle minoranze. Sono principi forti, il cui accoglimento permette di risolvere, attraverso la discussione e il dibattito, in modo pacifico, questioni intricate e controverse”.
La Corte suprema si chiede innanzi tutto – dopo aver affrontato e risolto positivamente il problema relativo alla propria competenza nel caso di specie – quali sono i principi costituzionali dell’ordinamento canadese e li enumera, come poc’anzi accennato. Il primo di essi è “le principe du fédéralisme”, concepito come “une reconnaissance de la diversité des composantes de la Confédération et de l’autonomie dont les gouvernements provinciaux disposent pour assurer le développement de leur societé dans leurs propres sphères de compétence”.
E aggiunge – significativamente – che “la structure fédérale de notre pays facilite aussi la participation à la dèmocratie en conférant des pouvoirs au gouvernement que l’on croit le mieux placé pour atteindre un objectif sociétal donné dans le contexte de cette diversité”. Dunque, riconoscimento delle differenze, sviluppo delle comunità locali e, attraverso la loro partecipazione all’attività di governo, realizzazione del principio democratico.
La democrazia è un valore fondamentale della cultura giuridica e politica e il suo buon funzionamento esige “un processus permanent de discussion… Nul n’a le monopole de la vérité et notre système repose sur la croyance que, sur le marché des idées, les meilleures solutions aux problèmes publics l’emporteront. Il j aura inévitablement des voix dissidentes. Un système démocratique de gouvernement est tenu de prendre en considération ces voix dissidentes, et de chercher à en tenir compte et à y répondre dans les lois que tous les membres de la collectivité doivent respecter”.
La democrazia consiste nel dar voce a chi ha qualcosa da dire, nel presupposto – l’avrebbe mai potuto affermare la nostra Corte costituzionale, in sede di risoluzione di un qualunque conflitto sorto tra Stato e Regioni? – che “nessuno ha il monopolio della verità”. La democrazia, in altre parole, è confronto dialettico, contraddittorio, in funzione di una scelta. Non è l’espressione di un predominio giacobino, né di sovraordinazione gerarchica e imperatività a senso unico.
È da considerare naturale, tutto ciò, dal momento che “les principes du constitutionnalisme et de la primauté du droit sont à la base de notre système de gouvernement”. Il che comporta, tra l’altro, che “les Canadiens n’ont jamais admis que notre système est entèrement régi par la seule règle de la simple majorité”, per la semplice ma decisiva ragione che il riferimento essenziale è ai valori fondamentali propri del sistema complessivo: fra i quali deve ricomprendersi: “la protection des minorités”.
È sulla base di simili premesse che la Corte suprema conclude che “le principe du fédéralisme, joint au principe démocratique, exige que la répudiation claire de l’ordre constitutionnel existant et l’expression claire par la population d’une province de désir de réaliser la sécession donnent naissance à une obligation réciproque pour toutes les parties formant la Confédération de négocier des modifications costitutionnelles en vue de répondre au désir exprimé”.
Qui unità e pluralità non hanno carattere reciprocamente preclusivo, ma sono destinate a convivere, a scontrarsi e a ricomporre, ragionando, il dissidio. Il termine di riferimento comune è rappresentato dal confronto dialettico, che mira alla persuasione, in coerenza con il criterio del libero convincimento. Perché, questo e soltanto questo dà, ad un tempo, forma e sostanza adeguate al binomio federalismo-democrazia.
Tutto ciò è privo di un qualunque collegamento – ideale, politico, istituzionale – con quanto affermato dalla Corte costituzionale italiana, la quale, chiamata a pronunciarsi in ordine a questioni di legittimità costituzionale proposte dallo Stato nei confronti della Regione Veneto, che aveva promosso una consultazione referendaria consultiva sul proprio progetto di richiedere per sé “forme e condizioni particolari di autonomia” (ai sensi del testo originario dell’art. 116 Cost.), ha ritenuto – con una decisione tra le più tristi che conosca, oltretutto perché priva di riscontri reali e annebbiata dell’ideologia – “l’iniziativa revisionale della Regione, pur formalmente ascrivibile al Consiglio regionale, … nella sostanza poco più che un involucro nel quale la volontà del corpo elettorale viene raccolta e orientata contro la Costituzione vigente, ponendone in discussione le stesse basi di consenso”.
Tutto ciò, nonostante la Regione avesse svolto ampie riflessioni “sui concetti di unità e indivisibilità della Repubblica, nella loro relazione con il principio autonomistico, denunciando la persistenza di una visione che concepisce forme di dialogo solo tra i supremi organi dello Stato e trascura la possibilità di porre in rapporto dialettico le diverse soggettività dell’ordinamento, siano o meno titolari di potestà pubbliche”.
Dunque, vietato parlare e assumere iniziative al di fuori del corpo dello Stato, anche quando questo è ridotto a un ectoplasma. Eppure l’opinione pubblica aveva, proprio in quel tempo, dato voce a istanze riformatrici, avendo ben chiaro in mente che tutto è possibile a questo mondo, eccetto l’autoriforma.
Spunti per una riflessione
Non c’è dubbio che Miglio ha almeno due volte ragione: quando non crede nella eventualità di riforme vere, perché radicali e coerenti; e quando teme soluzioni di compromesso, dove il compromesso equivale a soluzione pasticciata, confusa, al ribasso. In questo secondo caso, i mutamenti sarebbero di mera facciata, non sostanziali, e non avrebbero l’effetto di intaccare l’impero burocratico, che naturalmente tutela e conserva se stesso. Senza scandalo, sul piano cognitivo, perché sta nella forza delle cose e nell’istinto di conservazione: che è di tutti, apparati burocratici compresi.
Se così è o, almeno, così può essere, vale la pena di fare ricorso – per un istante – all’umorismo che diverte e rasserena: “In molti casi l’assurdo è tale, che vien fatto di ricordare – così scrive Giuseppe Maranini – la storia di quella sentinella che da tempo immemorabile vigilava una panca davanti a una caserma, e nessuno sapeva il perché. Un nuovo comandante volle scoprire l’arcano, e arrivò a stabilire che molti anni prima la panca era stata verniciata, e che un suo predecessore aveva saviamente ordinato che si impedisse alla gente di sedersi sulla vernice fresca: ma poi nessuno aveva pensato a revocare l’ordine. Taluni aspetti delle nostre istituzioni sono tanto privi di senso e tanto risibili quanto la persistente vigilanza di quella sentinella, quando da anni la vernice non solo si era asciugata, ma si era ormai scrostata e distaccata. Talvolta si tratta solo di inerzie mentali e di errori. Più spesso dietro le inerzie mentali e gli errori prosperano interessi inconfessabili”
L’espressione sulla quale è opportuno soffermarsi è la seguente: “privi di senso e tanto risibili”. La si può riferire a una serie infinita di istituti, di situazioni, di conseguenze. Senz’altro, è privo di un senso qualunque continuare a ritenere che si possa prescindere dalla affermazione in concreto del principio di responsabilità e che questo lo si possa comunque declinare indipendentemente dal rapporto giuridico d’imposta: vale a dire dall’evento che non verrà mai meno, qualunque sia il modello sociale ed istituzionale prescelto e attuato. Di carattere locale o globale, perché nulla si può compiere senza risorse.
Come si dice e come è noto, homo sine pecunia imago mortis! Sicché, è da qui che si deve partire, allo scopo di selezionare le azioni preliminari rispetto alle riforme da intraprendere. Ancorché Gianfranco Miglio abbia diversamente considerato il profilo inerente il nesso entrate-spese e abbia privilegiato – del tutto legittimamente, s’intende – l’articolazione organizzativa del potere, la denuncia delle perversioni burocratiche, così ostinatamente affermatesi nel nostro Paese a causa delle vicende storiche che ne hanno contrassegnato lo sviluppo, rappresenta un dato essenziale da cui non si può prescindere. Perché – lo stanno constatando quanti operano per le riforme – il nemico, in senso oggettivo, è la burocrazia ministeriale.
Certo, c’è chi si oppone in nome di preoccupazioni nobili, se non altro perché teme che il federalismo preso a prestito da altri ordinamenti sia destinato a rompere l’unità della Repubblica.
A una simile prospettazione non si può opporre che “il problema fondamentale rimane quello della mancata attuazione di molti aspetti della Costituzione e quello della sua successiva degenerazione, che i costituenti non riuscirono a prevedere”, e che “non va sottovalutato un aspetto evidente che è stato spesso trascurato: la scarsa cultura e le motivazioni ideologiche e interessate dei partecipanti a quell’Assemblea”. Davvero, parlare di limiti culturali, riferiti a quel consesso, mi sembra destituito di ogni fondamento, per ragioni che non posso qui illustrare; mentre non ne è certo una prova l’estrapolazione, da un dibattito amplissimo, di brani di alcuni interventi svolti in Assemblea, e non nell’ambito della Commissione dei settantacinque, che testimoniamo soltanto una banalità: non si può essere sempre stellari! Tantomeno, ha senso far leva sulla natura compromissoria del patto costituzionale, perché un patto non può che registrare punti di vista molteplici, non dovendo e potendo recepire modelli teorici che lasciano il tempo che trovano.
Conta, pertanto, la realtà. Contano i fatti, i quali dimostrano a chiunque che si è giunti ormai a un punto estremo: il livello complessivo della tassazione ha raggiunto stadi non più superabili, pena la rivolta fiscale; lo Stato si trova di fronte a un’alternativa: o riduce l’ammontare delle prestazioni e dei servizi erogati o rende la spesa più efficiente, destinando la medesima quantità di risorse oppure realizzando economie in funzione del debito pubblico accumulato. Questioni di economia domestica, che confermano, per l’ennesima volta, come il problema dei problemi sia rappresentato da un’amministrazione inefficiente, che genera costi superflui enormi a carico di persone, famiglie e imprese. Il rimedio – da sempre ne sono convito – sta nella fiscalità e nel suo decentramento, che va sotto il nome di federalismo fiscale. Lo ha ribadito, di recente, un autorevole studioso, quando ha notato che “se gli Enti decentrati devono rispettare livelli minimi delle prestazioni fissati dal centro diviene difficile far valere il principio di responsabilità. Oltre al criterio di sussidiarietà, la distribuzione delle competenze ai diversi livelli di governo dovrebbe rispettare anche i due criteri di responsabilità e di solidarietà. In base al criterio di responsabilità chi è competente nella spesa deve anche essere responsabile del suo finanziamento.
L’applicazione del principio della responsabilità discende dalla constatazione che nelle strutture decentrate dotate di autonomia tributaria vi è una maggiore capacità di controllo della spesa pubblica grazie all’esercizio della responsabilità fiscale e al conseguente maggiore controllo esercitato dagli amministrati sui loro rappresentanti”. Lapalissiano, ma finora questo insegnamento si è dimostrato irrealizzabile perché nessuno vuole assumersi responsabilità di sorta, quando è quest’ultima che genera senso di appartenenza, condivisione vera di un destino comune, senso delle istituzioni, unità. In caso contrario, si avrà un’unità formale.
D’altra parte, è la cronaca quotidiana che offre la prova provata che esistono non una, ma più Italie. Non è riuscito a porvi rimedio neppure il fascismo ed oggi noi costatiamo che le istituzioni sono devastate perché rispondono diversamente nei vari territori regionali in cui si articola la Repubblica. Non a caso si è detto di un “federalismo inteso come arma contro clientelismo e mafie: non è certo con le tradizionali politiche redistributive, accompagnate da finti posti di lavoro, che si risolve la questione del Mezzogiorno”.
Ma la Regione Campania come ha strutturato alcuni recenti provvedimenti finanziari? Distribuendo risorse a pioggia, mentre è confermata, per l’ennesima volta, la constatazione di Miglio circa la consistenza e la derivazione prevalentemente meridionale del ceto burocratico, che ignora – per definizione – che cosa sia l’impresa e in che cosa consista produrre reddito: perché si è ricordato – e di ciò dovrà farsi carico il riformatore – che “con oltre nove milioni e mezzo di abitanti la Lombardia ha 3.495 dipendenti regionali. Sono sei volte meno numerosi dei 20.989 della Regione siciliana. Con i siciliani che sono poco più della metà dei lombardi, in un sol colpo, alla vigilia delle elezioni 2006, la Regione siciliana ha regolarizzato 3.496 precari. Se in Lombardia c’è un dipendente regionale ogni 1.800 persone in età lavorativa, in Campania ce n’è uno ogni 472, in Calabria uno ogni 400 e in Molise uno ogni 226”. Ciascuno è libero di credere in ciò che vuole, ma non deve dimenticare che le leggi dell’economia non sono subordinate alle leggi che si dà la politica: “Il problema che non si riesce a risolvere è come bloccare la risposta impropria dei politici alla domanda impropria degli elettori”!. Si risponde: con “una versione severa del nostro regionalismo”, perché “autonomia vuol dire responsabilità”.
Ma io, che di responsabilità me ne intendo, ho scritto che questa parola non l’ho mai sentita evocare seriamente e, se qualcuno la pronunciasse, “la si dovrebbe considerare un neologismo”.
Purtroppo è così, semplicemente così! “Il braccio rotto era quello destro, ma i medici le hanno ingessato quello sinistro. Il nuovo caso di malasanità è accaduto all’ospedale dell’Annunziata di Cosenza”. “Morto per un’ingessatura sbagliata. Nel 2005. E sempre al Sud”. Dovrei elaborare cosiddetti ragionamenti giuridici, citare disposizioni e sentenze nelle loro massime, là dove enunciano principi.
Ed io, invece, ritengo di dover semplicemente riprodurre – estrapolandolo dalla lettera che una madre ha scritto – un brano della sentenza di condanna innanzi tutto di un sistema profondamente ingiusto: “Si è detto che Andrea Bonanno è stato vittima della trascuratezza, quando invece in quei pochi giorni di ricovero è stato visitato, curato, seguito da decine tra medici ed infermieri delle più diverse branche, fatto oggetto delle più svariate consulenze, sottoposto a una serie innumerevole di trattamenti ed accertamenti; eppure la struttura che avrebbe dovuto garantirgli la guarigione da una banale frattura lo ha ucciso. Il piccolo Andrea è stato prima di tutto vittima di un sistema che concepisce il malato come una sorta di fantoccio inanimato, un contenitore di organi e di ossa trasportato da un reparto all’altro perché, nelle migliori delle eventualità, questi e quelle vengano ‘prese in carico’ dagli specialisti di settore, o perché nella peggiore, chi si sia trovato a ‘gestire’ il ‘paziente critico’ sia messo un domani in condizione di poter dire (e, soprattutto, poter documentare) che nessun sintomo è stato trascurato, nessun esame è stato omesso, nessuna consulenza non è stata invocata; poi c’è un bambino che si lamenta per un gesso troppo stretto, ne porta i sintomi che anche un profano sarebbe in grado di decifrare… ma ‘il sistema’ ha ormai reso tutti ciechi e sordi”.
E poco oltre: “Qui la gente perde la vita, non perché viene sottoposta a degli interventi di alta chirurgia, dove i rischi sono messi in conto, bensì per appendicite, per ascesso tonsillare o peggio ancora per un semplice gesso”.
Un esempio, tra tanti, che tuttavia conferma in radice, l’analisi e le conclusioni di Miglio, che ha individuato in un “sistema di governo”, a dir poco inadeguato, l’origine del male istituzionale che ci opprime.
Questione di giustizia
La narrazione disincantata di azioni che nella loro plateale inettitudine offendono ha a che fare con la persona. È di essa che si sta parlando, anche quando si cita – come ho più volte ricordato – un noto ammonimento: “riesce difficile persuadersi che in fondo all’imposta si debba cercare solo l’incanto delle cose che esistono. Gli uomini vogliono istintivamente rendersi ragione del perché pagano; e se quella ragione non è spiegata chiaramente, gridano all’ingiustizia. La credenza nella monarchia o nella repubblica, in una o due camere, in un presidente eletto dal popolo o da un’assemblea o, come in qualche tempo e paese accade, estratto a sorte, è un atto di fede.
Ma la credenza nell’imposta sul reddito, sul patrimonio o sulle eredità o sui consumi non è un atto di fede” . Il che spiega – implicitamente, ma chiaramente – che i temi riguardanti la forma di governo hanno carattere secondario. E della persona si sta parlando, altresì, quando si ricordano “tre fondamentali concetti: il fabbisogno standard di spesa risultante dai costi standard dei servizi; l’autonomo gettito fiscale standard; e infine l’eventuale trasferimento perequativo non vincolato che dovrebbe ridurre la insufficienza del gettito rispetto al fabbisogno”.
Poiché tutti i diritti costano, con il linguaggio della scienza delle finanze si dice quale è il “compito per casa” da svolgere se si vuole davvero attuare la Costituzione: nella sua parte prima. Ridotta all’essenziale, la questione delle riforme equivale a una pura e semplice questione di giustizia: per quanto mi riguarda, nel senso reso esplicito da Silvio Trentin, per il quale “la giustizia non è in fondo che la proiezione del senso che ha l’uomo di essere se stesso, il senso del proprio io (e dell’io degli altri), il senso insomma che ha l’uomo della sua personalità e del rispetto che gli è dovuto in quanto persona”146. Qui c’è, trasparente, il rifiuto della statolatria e di ogni eccesso legato al pensiero e all’azione degli apparati.
Dunque, si tratta di non essere più complici dello sperpero del pubblico denaro, ripensando la fiscalità e la allocazione responsabile delle risorse, che sono date ai pubblici poteri per la tutela dei diritti costituzionali. Il federalismo, nella sua vocazione antiburocratica – come è nella lezione di Gianfranco Miglio – rappresenta il modello organizzativo che può consentire di realizzare l’efficienza e la funzionalità dell’amministrazione inattuate dallo Stato accentrato. Per un fine che lo trascende, dal momento che “esso si fonda sulla capacità della persona di valutare, organizzarsi, decidere e comprendere che la propria stessa ‘ricchezza’ in quanto persona consiste nella ‘ricchezza’ delle sue relazioni, dei suoi ‘accordi’ con gli altri e il diverso da sé”
Testi tratti da
IL PENSIERO FEDERALISTA DI GIANFRANCO MIGLIO:
UNA LEZIONE DA RICORDARE
a cura di Luca Romano
Atti del Convegno di studi – Venezia 17 aprile 2009
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