Gianfranco Miglio visto da Luca Antonini

Luca Antonini è un avvocato, accademico e giurista italiano, dal 26 luglio 2018 giudice della Corte costituzionale. È considerato il padre del federalismo fiscale, in forza del contributo che ha fornito alla redazione della legge delega n. 42 del 2009 e agli otto decreti legislativi emanati durante la XVI legislatura.

Quella di Miglio è una lezione da ricordare: non è detto che sia una lezione da attuare, forse la radicalità di certi punti di vista chiede ancora troppo rispetto alla compatibilità con la situazione storica attuale, ma senz’altro è una lezione che contiene provocazioni che meritano di essere ancora considerate. Evidentemente Miglio è stato un pensatore profetico nell’identificare la crisi dello Stato Nazione, cioè del progetto politico della prima modernità.

Ad esempio, come è stato dimostrato anche da Alesina, l’integrazione economica favorisce la disgregazione politica degli Stati nazione : l’integrazione garantita dall’Unione europea sotto il profilo monetario, e quella commerciale garantita dagli accordi stipulati sotto egida WTO, nonché la protezione militare offerta dalla Nato, consentono infatti anche ai piccoli Paesi di godere dei vantaggi connessi all’ampiezza dei mercati, alla tutela della concorrenza, alla stabilità della moneta . In altre parole, questi fattori tendono a far percepire la dimensione nazionale non più come condizione essenziale per garantire sviluppo, benessere, protezione sociale, sicurezza: se in una determinata realtà statale esistono forti differenze economiche, culturali, linguistiche o religiose, le tendenze autonomiste si sviluppano oggi con maggiore facilità .

In questo modo, i federalismi nati tra ‘700 e ‘800 come “strumento di unificazione politica e territoriale di unità diversificate nel tardo novecento si sono convertiti in formula di attuazione della decentralizzazione praticabile nei limiti di salvaguardia dell’unità” . È quindi interessante considerare che il federalismo/regionalismo asimmetrico è paradossalmente diventato nel terzo millennio la formula con cui si può mantenere l’unità politica in realtà già federali/regionali segnate da istanze autonomiste di matrice identitaria, culturale o economica.

Di fronte a questo esito si comprende l’attualità della lezione di Miglio, che ha indubbiamente contribuito a svecchiare e a risvegliare il dibattito nel nostro Paese.


In Italia, infatti, ha imperato per lungo tempo un regionalismo dell’uniformità, il cui paradosso è stato quello di non essere riuscito, nonostante i vari decenni d’applicazione, a garantire l’unificazione delle condizioni di vita. Il tessuto delle varie realtà regionali appare, infatti, ancora attraversato da profonde differenze economiche e sociali : basti pensare, ad esempio, quanto la realtà della sanità della Lombardia sia diversa da quella della Calabria (lo dimostrano anche i dati delle migrazioni sanitarie) o come la condizione dell’agricoltura del Veneto sia differente da quella della Basilicata.

O ancora come, dopo decenni di politiche e di finanziamento fortemente egualitario, la scuola statale fornisca ancora oggi risultati diversissimi nelle diverse aree geografiche nonostante l’impiego di risorse (come misurato dalla spesa per alunno, dal rapporto alunni/docenti, dalla dimensione delle classi) sia stato identico per decenni. La rilevazione delle conoscenze con la metodologia standardizzata PISA mostra, ad esempio, che gli alunni del Nord si collocano sulla media OCSE, il Centro sotto la media e il Mezzogiorno a distanza enorme dalla media .

Sulla scorta di questa esperienza deludente, funzionale più all’egualitarismo che all’eguaglianza, è solo a partire dagli anni Novanta che ha lentamente incominciato ha trovare spazio la prospettiva della differenziazione, sebbene all’interno di un panorama ancora fortemente orientato alla logica dell’uniformità.

L’ulteriore radicamento – anche se in modo non del tutto lineare – del principio di differenziazione è, quindi, avvenuto con la l. n. 57 del 1997, che lo ha collocato tra i principi fondamentali diretti ad indirizzare i conferimenti di funzioni. Peraltro, nella sistematica della l. n. 59 del 1997 questo criterio si è venuto a trovare in stretta connessione con altri principi, in particolare con quello d’adeguatezza, così che tutto il processo di federalismo amministrativo dovesse tendere ad assumere come referenti non più enti omologati per astratte categorie, ma soggetti effettivamente in grado di esercitare le nuove funzioni. In quest’accezione i principi di differenziazione e d’adeguatezza si sono configurati come declinazioni del principio di sussidiarietà, inteso quest’ultimo nella sua potenziale attitudine a realizzare un riparto di competenze non più fondato su un criterio formalistico, bensì su quello sostanziale della corrispondenza alla realtà delle cose, in altre parole assecondando il passaggio da un modello definitorio di tipo geometrico-virtuale al privilegio per una relazione di “adaequatio rei et iuris” funzionale ad individuare l’assetto ottimale d’allocazione.


Sviluppando questo principio, la legislazione regionale conseguente al d. lgs. n. 112 del 1998, in alcuni casi, è sembrata offrire significative conferme di una rinnovata capacità di realizzare una “politica delle differenze”, idonea a tradursi anche in termini di maggiore efficacia delle funzioni trasferite.


Assai rilevante è la circostanza per cui, a fronte dell’implementazione dei poteri, nella legislazione regionale si siano sviluppate importanti aperture verso formule di Welfare society, incentrate sull’iniziativa e sulla solidarietà dei cittadini . Numerose leggi generali d’attuazione del d. lgs. n. 112 del 1998, infatti, hanno espressamente assunto la sussidiarietà orizzontale come principio generale dell’azione regionale. L’apertura all’autonoma iniziativa dei cittadini e delle formazioni sociali ha potuto quindi essere calibrata in relazione alle reali condizioni della società civile, conducendo in alcuni casi, similmente a quanto accade in altri ordinamenti , alla sperimentazione di sistemi innovativi nella tutela di alcuni diritti sociali. Ad esempio, la tendenza a valorizzare la possibilità di scelta del servizio attraverso lo strumento del cd. Vaucher dei sistemi anglosassoni si è affermata in diversi settori delle competenze regionali, dalla formazione, all’istruzione, all’assistenza sociale.


Dall’analisi emerge quindi la capacità delle politiche regionali differenziate di valorizzare le condizioni di sviluppo della cd. Welfare Society, caratterizzata dal pluralismo sociale e dalla varietà delle forme di risposta ai bisogni11. Il livello di governo regionale presenta un grado di vicinanza alle istituzioni del pluralismo sociale che ne permette una consapevole promozione e sperimentazione, probabilmente più di quanto non possa avvenire su scala nazionale. In alcune Regioni si sono così avviati circoli virtuosi tra pluralismo territoriale e pluralismo sociale, dimostrando come la garanzia delle differenze, cui sono informati per aspetti forse anche potenzialmente contrapposti l’art. 5 e l’art. 18 della Costituzione, possa comporsi in un’efficace sintesi.


Di fronte a questi casi, inoltre, la convinzione che l’eguaglianza richieda l’uniformità o che tra federalismo e stato sociale esista un conflitto insanabile può risultare smentita dalla possibilità di creare forme di risposta alle necessità sociali più efficaci di quelle ipotizzabili in base ad una politica uniforme su tutto il territorio nazionale. Nell’ottica dell’uniformità sarebbe risultato, infatti, più difficile considerare le profonde differenze che attraversano la realtà regionale italiana, sia riguardo alle condizioni economiche sia rispetto alla diversa strutturazione e tradizione del tessuto del privato sociale, con il duplice rischio, quindi, di creare situazioni di inefficienza o al contrario di non valorizzare potenziali risorse.


Da questo punto di vista, allora, diventa in fondo interessante riprendere alcune provocazioni di Miglio come quella sul cd. “modello anseatico”, che ricalcava quello delle città commerciali, come Venezia: un modello che l’Europa aveva conosciuto prima che ovunque nel continente s’imponesse la struttura statuale moderna con la sua burocrazia e il suo centralismo.
Miglio avrebbe senz’altro apprezzato la nuova legge sul federalismo fiscale (l. n. 42 del 2009), che rivoluziona un sistema che da troppi decenni è stato gravemente inquinato da principi iniqui e deresponsabilizzanti.

Innanzitutto quello del finanziamento in base alla spesa storica, che è stato il male che da sempre ha afflitto il nostro sistema. Dai decreti Stammati degli anni Settanta il comparto regionale e locale è stato, infatti, finanziato in base a quanto si era speso in passato e così si sono sistematicamente premiate le gestioni inefficienti e punite quelle virtuose. Molti dei problemi attuali nascono da questo perverso criterio, anche quelli che maggiormente hanno afflitto i nostri Comuni del Nord Est. È il criterio della spesa storica che impone poi un Patto di stabilità interno che fa di tutta un’erba un fascio, senza distinguere tra virtuosi ed inefficienti.

Fino al suo radicale superamento, qualsiasi altra soluzione sarebbe come mettere una pezza nuova su un vestito vecchio. Non è questione di “pezze”, occorre cambiare il “vestito”. A questo provvede la riforma attraverso l’introduzione del costo standard, che finanzia il servizio ma non l’inefficienza. Se un Ente vorrà continuare a superare il costo standard, consentendo, com’è avvenuto, che una scatola di cerotti in certe Usl venga a costare anche cento di volte di più che in altre (si veda l’intervista al Presidente della Regione Calabria su «Il Sole 24 Ore» del 14 aprile 2009 che conferma vicende di questo tipo), quell’amministrazione non potrà più chiedere allo Stato di pagare a piè di lista quella spesa.

Cioè non potrà più chiedere di pagarla a tutti in contribuenti, che poi sono soprattutto quelli del Nord. Quella amministrazione regionale o locale dovrà invece aumentare le proprie imposte sui propri cittadini, che chiederanno il conto e giudicheranno con il voto. È dunque la fine della cd. finanza derivata ed è la fine del criterio del ripiano a piè di lista che ha portato il governo Prodi a stanziare nella sua ultima finanziaria 12 miliardi di euro per 5 regioni in extradeficit sanitario o che durante questa legislatura ha portato a destinare 140 milioni di euro a favore del comune dissestato di Catania. Gli attuali trasferimenti ordinari, che oggi gravano sul bilancio dello Stato per oltre venti miliardi di euro all’anno, verranno sostituiti da risorse fiscali autonome: in altre parole aumenterà la pressione fiscale regionale e locale, mentre diminuirà in misura corrispondente quella statale (lo Stato non avrà più i costi derivanti da quei trasferimenti). Una parte di quello che un contribuente pagava allo Stato, lo pagherà alle Regioni e agli Enti locali, si realizzerà la cd. “tracciabilità” dei tributi perché finalmente si saprà per quali spese sono chieste le imposte e si potranno quindi giudicare con il voto le varie amministrazioni. Attraverso questo processo la pressione fiscale complessiva è destinata a diminuire. Autonomia e responsabilità sono dunque virtuosamente coniugate, valorizzando la possibilità di razionalizzazione della spesa e il controllo democratico degli elettori regionali.

Questo non c’è mai stato in Italia: senza federalismo fiscale avevamo rovesciato un cardine della democrazia: no taxation without representation, era diventato representation without taxation. Questo non ha reso un buon servizio né alla democrazia, né al principio di responsabilità, né ai conti pubblici. Ora gli amministratori regionali e locali potranno anche utilizzare la leva fiscale per politiche dirette ad attuare in modo organico il principio di sussidiarietà e tutelare la famiglia (come prevede la nuova legge nei suoi principi fondamentali).

È una nuova stagione che si apre in tempi relativamente brevi: nei prossimi due anni i decreti definiranno questo nuovo quadro del sistema tributario regionale e locale, avverrà il trasferimento dei beni demaniali aprendo a Regioni ed Enti locali importanti possibilità di valorizzazione di una patrimonio spesso inutilizzato, finirà la logica del “tutta un erba un fascio”, ci sarà il fallimento politico del Sindaco che manda in dissesto finanziario il Comune. Inizierà inoltre, in modo graduale ma da subito, per compiersi in cinque anni, il progressivo passaggio dalla spesa storica al costo standard.

A chi obietta che cinque anni sono troppi basta mostrare un dato tra i tanti che si potrebbero utilizzare: il numero dei “regionali” della Sicilia, che pareggia quello di Piemonte, Lombardia, Lazio, Veneto, Emilia Romagna, Friuli e Liguria messe insieme.

Nel complesso il nostro sistema si sta avviando verso una nuova stagione riformista. Peraltro, la consapevolezza che la forma di governo parlamentare disegnata dalla Costituzione del ‘48 fosse inadeguata non è una novità: risale, infatti, alla stessa Assemblea Costituente, che votò l’ordine del giorno Perassi dove si precisava la necessità di introdurre meccanismi idonei a garantire la “stabilità dell’azione di governo e a evitare degenerazioni del parlamentarismo”.

Quell’ordine del giorno rimase però lettera morta, fino a quando la prospettiva di una grande riforma venne rilanciata con forza da Craxi nel 1979. Da quel momento in Italia si aprì la stagione delle Commissioni (Bozzi, De Mita-Jotti, Speroni, ecc.) e fu la storia di un ripetuto fallimento politico che lasciò indenne l’assetto istituzionale (salvo che per l’abolizione del voto segreto). Nenni ripeteva che “se Dio non avesse voluto creare il mondo avrebbe istituito una Commissione”: frase davvero azzeccata soprattutto per un clima dove la prospettiva di una grande riforma rimase più strumentale al tentativo di riformulare gli equilibri politici che all’effettivo bisogno del Paese.

Le cose cambiarono nel momento caldo della transizione, nei giorni dell’epopea referendaria contro la preferenza e il proporzionale, nel momento drammatico della rivoluzione giudiziaria di Tangentopoli. L’assetto politico italiano ne uscì sconvolto e si avviò la stagione delle riforme elettorali: da quella per l’elezione del sindaco a quella del parlamento. Il nuovo sistema politico nato sulle ceneri della rivoluzione giudiziaria si dimostrò poi anche capace di riformare la Costituzione: la riforma del 2001 che trasformò in chiave federalista l’intero Titolo V della Costituzione ne è stato l’emblema. Si è trattato però di un emblema, in un certo senso, tragico, perché quella riforma venne approvata in limine mortis della XIV legislatura e solo per cinque voti: un grave smacco alla tradizione di un Paese dove la Costituzione del ‘48 era stata approvata quasi all’unanimità, al punto da essere definita la “Costituzione di tutti”. Iniziò il momento delle “Costituzioni di parte”, dove le riforme costituzionali tornarono a essere utilizzate in chiave di strumentalità politica: la riforma del Titolo V venne approvata in fretta e furia sul finire della legislatura, in fondo solo per togliere alla Lega Nord il collante con Forza Italia, al punto che la legislatura successiva si ritrovò ad inseguire, invano, la riforma costituzionale della “Devolution”.

Il risultato è che la forma di governo italiana non è più adeguata al tempo presente. Il bicameralismo paritario con due Camere che formano una popolazione di circa mille parlamentari, che danno entrambe la fiducia al Governo e devono concordare ogni virgola di un disegno di legge, rappresenta nel mondo una vera e propria rarità costituzionale. Anche il potere del Governo, dal punto di vista dell’assetto istituzionale, è troppo debole rispetto alla necessità di soddisfare, con decisioni efficaci, i bisogni rappresentati. È utile approfondire la questione anche dal punto di vista dell’esigenza storica.

Nei primi anni della storia repubblicana, infatti, i partiti lasciarono cadere l’ordine del giorno Perassi perché lo vedevano come un possibile limite alla loro azione: erano i partiti legittimati dalla Resistenza, erano loro a presumere di legittimare democraticamente le istituzioni. Governi deboli, colonizzazione della società civile e blocco del pluralismo istituzionale (l’istituzione delle Regioni rimase congelata per vent’anni) furono le due coordinate della formula democratica di allora. Oggi questa formula non è più adeguata ai tempi, occorre disegnare un modello di democrazia basato su coordinate diverse: da un lato alla debolezza del Governo è opportuno che succeda un reale potere di soddisfare le domande in campo (basti pensare all’esigenza di fronteggiare fenomeni globali come quello della crisi finanziaria), e dall’altro alla colonizzazione della società civile e al centralismo è utile che si sostituisca la sussidiarietà, sia orizzontale che verticale.

Occorre cioè una formula istituzionale che sia in grado di restituire alla politica il primato sulle diverse istituzioni parallele che si muovono fuori del sistema costituzionale formale e sui poteri forti del mondo economico globalizzato, e che nello stesso tempo restituisca alla società civile e al pluralismo istituzionale quell’autonomia che per lungo tempo è rimasta soffocata dentro uno statalismo solo ideologico. L’Italia di oggi, da più punti di vista, si sta avvicinando a questa seconda formula: manca però una riforma costituzionale che razionalizzi la forma di governo.

La bozza Violante – sulla quale il Governo ha già votato un ordine del giorno favorevole – può rappresentare un’idonea base di partenza, perché, dal punto di vista dei contenuti, s’indirizza verso modifiche mirate e proporzionate, anche rispettose del nucleo essenziale di quel patrimonio costituzionale che è stato alla base del nostro Paese. Nel suo nucleo essenziale la proposta s’indirizza verso un ragionevole rafforzamento del potere del Governo senza però uscire dalla forma di governo parlamentare, riforma poi il bicameralismo paritario attraverso un Senato federale costruito sul modello tedesco, così come proprio Miglio, all’interno del Gruppo di Milano, aveva auspicato.

Testi tratti da

IL PENSIERO FEDERALISTA DI GIANFRANCO MIGLIO:
UNA LEZIONE DA RICORDARE

a cura di Luca Romano

Atti del Convegno di studi – Venezia 17 aprile 2009

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Gianantonio Bevilacqua, giornalista pubblicista dal 1998 Ordine dei Giornalisti - Regione Lombardia. , Esperto di difesa e politica

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