Gianfranco Miglio visto da Massimo Cacciari

A me sarebbe piaciuto poter tenere una vera e propria relazione con gli amici e colleghi presenti ma purtroppo uno studioso a cui ero particolarmente legato, Franco Volpi, è mancato e a Padova vi sarà fra breve la commemorazione. È una strana e dolorosa combinazione, perché Franco Volpi fu tra gli studiosi di filosofia che maggiormente apprezzarono e studiarono Gianfranco Miglio, figura nient’affatto isolata nell’ambito anche di tali studi, in particolare a partire da una storica antologia che curò con il suo allievo Pierangelo Schiera all’inizio degli anni ’70, che fece conoscere a noi più giovani, praticamente a tutta la mia generazione, l’opera di Carl Schmitt. Da allora cominciò una continua e fecondissima collaborazione; Gianfranco Miglio divenne uno dei punti di riferimento per i filosofi della (allora) nuova generazione: per Volpi e Marramao, per Esposito e Galli, per Duso e Curi. Ornaghi e Bertolissi lo ricordano bene.
Parliamo oggi, insomma, di una figura importantissima per l’intera cultura italiana, al di là di ogni appartenenza partitica, una figura politico-culturale che è stata al centro dei nostri interessi a partire dall’inizio degli anni ’70, ben prima cioè delle sue esperienze più “militanti”.


Io non avrei parlato del Miglio polemista etc., avrei parlato del Miglio teorico del federalismo – come poi verrà illustrato dai colleghi presenti –, di quello studioso che, a partire appunto dagli anni che ricordavo, ha tentato prima di tutto di fare igiene linguistica sul termine federalismo. Questo termine, un po’ come tutti gli “ismi”, vuol dire tutto e niente; le varianti del federalismo sono tante, e Miglio avviò anzitutto proprio un’operazione di igiene linguistica: cosa si intende per federalismo? È un’idea di confederazione, analoga a quella degli stati del sud prima della guerra di secessione? È un’idea invece che presuppone lo stato unitario e, anzi, ultraunitario, addirittura fondato su connessioni forti di tipo etico, comunitario, organicistico? Si può essere tutti federalisti, e nonostante ciò arrivare alla… guerra civile! Miglio distingueva criticamente, analizzava, perché era uno studioso, uno scienziato della politica e del diritto, non un ideologo e gli studiosi analizzano, sciolgono i “grumi” concettuali e linguistici, non li producono, quelli li lasciano all’ideologia e spesso, ahimè, a coloro che la politica credono di farla.


E così potremmo continuare nella sua distinzione rigorosa tra ogni forma di decentramento amministrativo e federalismo, nella sua rivendicazione dei poteri originari e costitutivi dell’ente locale sulla base di una ricostruzione della storia italiana, che insegna inequivocabilmente come la vita delle città ne sia il carattere distintivo. Nessuno con più energia di Miglio denunciava, con parole analoghe a quelle di un Calamandrei, i catafalchi amministrativi, le invenzioni istituzionali delle attuali Regioni e Province. E citava Tocqueville, citava Proudhon contro Mazzini, il principio federativo di Proudhon del 1863 nel quale lo studioso francese, così ingiustamente maltrattato da Marx, ricordava come l’Italia è un Paese federale nel suo DNA, per il territorio, per i costumi, per la storia. Ma si tratta di un federalismo delle città, degli Enti locali; tutto il resto, diceva Miglio, avrebbe dovuto essere eliminato o profondamente, radicalmente trasformato (macro-regioni, ecc).


Non è facile ”trattare” Miglio. Impossibile piegarlo ad una “parte”. E proprio perché con il suo pensiero tutti debbono fare i conti. Certo, Miglio non apparteneva al “filosofumo”, e le sue idee voleva metterle alla prova. Sperimentava, per così dire, la loro effettualità, con indomabile passione. Ma organizzazioni e partiti erano per lui “armi leggere”, strumenti, semplici mezzi, non certo sette o chiese. Si provano, e quando non funzionano si lasciano. Massimo rigore teorico, massima lucidità strategica e insieme massima spregiudicatezza tattica. Questa era l’idea di Miglio sulla forma-partito, un’idea “disincantata”, caratteristica del suo realismo politico Illusionsfrei.


Ma il punto fondamentale, che avrei voluto discutere con voi, che era al centro di una discussione che abbiamo avuto con Ornaghi subito dopo la scomparsa di Miglio proprio alla Cattolica di Milano, riguarda il quadro teorico generale della sua indagine: da un lato, egli collocava l’idea federalista in un processo di esaurimento della forma Stato tradizionale, dello Stato Nazione (contraddizione in termini, poiché lo Stato elimina le “nationes”!); il federalismo di Miglio si colloca oltre lo Stato. Ricordo che all’inizio degli anni ’80 organizzammo come Istituto Gramsci, diretto da Curi, un interessantissimo Seminario intitolato appunto “Oltre lo Stato”, che partiva da Schmitt, e con la relazione fondamentale di Miglio. Sono passati quasi trent’anni, e la ricerca teorica è ancora lì! Il federalismo si colloca, cioè, nella prospettiva di un superamento della prassi, dell’agire politico orientato esplicitamente alla sovranità statuale, alla sua “conquista”, e intende operare tale superamento attraverso il pieno riconoscimento del principio che la sovranità può essere divisa. Esistono forme distinte di sovranità, che trovano in se stesse la propria legittimazione e che si accordano tra loro sulla base di patti-contratti. L’opposto, come si capisce facilmente, di ogni decentramento.


Ma perché è necessario pensare oltre allo Stato? Questo è il punto fondamentale. Miglio, in modo totalmente disincantato, assume la prospettiva della secolarizzazione. Ornaghi, in un saggio recente che fa da prefazione a un libro giovanile di Miglio, sottolinea questo aspetto; Miglio non pensa assolutamente in modo reazionario, il processo di secolarizzazione è per lui un processo ormai inevitabile ed esso implica che il concetto di bene comune si è trasformato sempre più nel bene della conservazione della sovranità dello Stato; questo è il bene che lo Stato persegue.


Il bonum che lo Stato persegue è la propria conservazione, la conservazione di sé, processo assolutamente analogo a quello per cui il bonum dell’individuo è divenuto il proprio individuale benessere, benessere di tipo essenzialmente economico. Si tratta di processi assolutamente paralleli e inseparabili, che compongono quello che malamente chiamiamo processo di secolarizzazione.
Ma questo processo per Miglio, esattamente come per Schmitt, è giunto al suo compimento; questo processo di neutralizzazione della politica, questo processo di riduzione della politica amministrativo-economico, giungono oggi al loro compimento.
Qui Miglio è “profetico”. Egli reagisce ante-litteram alle ideologie liberiste che domineranno tra anni ’80 e ’90, gli anni del “metti l’Economico al comando”, ”il Politico è meramente burocrazia e impedimento” ecc. ecc. Miglio denuncia tutta la “miseria” teorica di questa “neutralizzazione”, di questa riduzione di ogni “scambio” a contratto, di ogni diritto pubblico a privato. Il federalismo era per lui la risposta politica alla crisi della forma-Stato.


Oltre lo Stato non siamo “condannati” alla “dissipatio” anarco-movimentista o agli appetiti dell’homo oeconomicus-consumans, come predicano statalisti-centralisti. Nessun destino ce lo detta. Oltre lo Stato possiamo pensare ad una società federalisticamente organizzata sulla base della divisibilità “originaria” del potere e sul principio di sussidiarietà coerentemente e generalmente applicato. Miglio era il primo ad esaltare le performances dello Stato moderno come grande prodotto dello spirito europeo, ma, ad un tempo, e proprio per questo, ne coglieva il compimento (che non significa affatto fallimento). Da questa crisi non si esce, per lui, con “romantiche” politiche comunitarie, né resistendo sul “meridiano” dello Stato, né abdicando alla politica con “scatenati” liberismi. L’esplodere del processo di globalizzazione, prima, e la grande crisi di questi anni, poi, hanno inverato la diagnosi di Miglio: la potenza dell’Economico produce crisi cicliche sempre più difficilmente governabili, e, d’altra parte, la forma-Stato nazionale, “territorializzato”, non potrà mai esprimere un governo all’altezza dei conflitti di ogni genere che la globalizzazione genera per sua stessa natura. (Nessuno come Miglio rideva delle promesse di “pace perpetua”, che sono proprie della ideologia di scienza e tecnica malamente intese).


L’organizzazione federalistica, l’articolazione diversa della sovranità, la suddivisione della sovranità sulla base di competenze fondate su legittimazioni originarie, costituivano per Miglio la speranza di una nuova forma politica oltre la forma politica dello Stato Nazione.
Dove stava la contraddizione, sulla quale infinite volte discutemmo insieme, e lo ricordo con enorme nostalgia? Da un lato il principio federalistico di Miglio nasceva da queste istanze, che erano il prodotto di tutta una ricostruzione della storia europea, della cultura europea, e lo studioso Miglio si colloca a questa altezza, all’altezza degli Schmitt, dei Weber, con tutta la sua carica anti-romantica, anti-utopistica; ma, dall’altro, il suo federalismo avrebbe dovuto funzionare in chiave totalmente pattizia, come il prodotto di un calcolemus, come, cioè, un “effetto” proprio della stessa secolarizzazione. In altri termini, come è possibile rispondere alla sfida “globale” della riduzione del Politico a tecnico-amministrativo con il principio federalistico, se questo viene declinato in termini puramente pattizi e, cioè, secondo la forma privata del contratto, dove al posto degli individui stanno i diversi “ordini” dell’organizzazione statale, enti locali, regioni, amministrazioni centrali? Certo, Miglio sapeva benissimo che con le attuali diciotto regioni non costruisci nessun patto. Ancor più sapeva, con i collaboratori del Gruppo Milano, che non c’è federalismo senza nuovo Parlamento e nuovo Governo. Altro che le riformette-tampone, il federalismo all’Arlecchino di quest’inizio Millennio!


E tuttavia il disegno federalista di Miglio manteneva un’irrisolta tensione tra i principi alla base delle filosofie dei Tocqueville e dei Proudhon, che non possono prescindere da una dimensione comunitaria di ethos e “amicizia”, e la sobria, dura “legge” della secolarizzazione, che riduce ogni “comunicazione” a “informazione” e ogni scambio a contratto. Io credo che Miglio avvertisse questa irrisolta tensione ma fosse, letteralmente, disperato intorno alla possibilità del suo superamento. Ma un federalismo “macchina” non è una contraddizione in termini? Ma chi pensa in grande può forse pensare senza contraddizioni?

Testi tratti da

IL PENSIERO FEDERALISTA DI GIANFRANCO MIGLIO:
UNA LEZIONE DA RICORDARE

a cura di Luca Romano

Atti del Convegno di studi – Venezia 17 aprile 2009

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Gianantonio Bevilacqua, giornalista pubblicista dal 1998 Ordine dei Giornalisti - Regione Lombardia. , Esperto di difesa e politica

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