
Martedì alle 11 in Sant’Ambrogio i funerali
Uno dei grandi di una grande Inter di un grande calcio, che adesso non c’è più. L’epoca dei Mazzola, dei Facchetti dei Burgnich. Il calcio romantico quando la fede nella squadra era corroborata dalla fede negli uomini, e quegli uomini avevano fede nella maglia. Oggi nel calcio come in politica tutto è massificato, l’attaccamento alla squadra non esiste più, esiste solo un contratto, perlopiù milionario, da stracciare quando non è più conveniente.
Insolente. Ma anche “piede sinistro di Dio”, “Mandrake”, “Matto Birago”, “Mariolino”. A fare una corsa all’indietro, tra cronache del tempo, articoli, interviste, leggendo Gianni Brera e Gianni Mura, si potrebbe creare un’antologia di soli soprannomi per Mario Corso. Quello del mancino divino lo coniò Gyula Mándi, commissario tecnico di Israele: era il 15 ottobre 1961 e l’Italia vinse 2-4 in rimonta, con una doppietta nel finale proprio di Corso: “Siamo stati bravi, ma ci ha battuti il piede sinistro di Dio“.
Semplicemente, Mario. Difficile inquadrarlo in un ruolo, impossibile costruire in maniera adeguata un castello di parole sufficiente a contenere il suo estro, il suo essere differente sul terreno di gioco, la sua capacità di inventare con quel sinistro benedetto.
Sarti, Burgnich, Facchetti, Bedin, Guarneri, Picchi. Iniziava così la filastrocca più famosa della storia del calcio. Corso la concludeva, 11esimo e numero 11: Jair, Peirò, Mazzola, Suarez, Corso. Dietro di lui aveva, più che difensori, monumenti. Capitan Picchi e Giacinto, che portiamo sempre nei nostri cuori. E poi Aristide Guarneri e Tarcisio Burgnich che, con la voce rotta dall’emozione, ci raccontano oggi la bellezza di essere stati compagni di un calciatore così straordinario.
Ed è Guarneri a disegnare in maniera esemplare la figura di Corso: “Io più di tutti Mario l’ho vissuto in prima persona. Perché non tutti probabilmente lo ricordano, ma io e Mario vivevamo insieme quando giocavamo all’Inter. Stavamo in Porta Romana, nell’abitazione di una signora, vedova: dormivamo in una grande stanza con due letti, poi mangiavamo al ristorante. Parlava poco, ma poi picchiava dentro sempre la sua battutina scherzosa, velenosa”.
Insolente, dicevamo. Ma non scansafatiche: “No, quello era impossibile, perché durante gli allenamenti Herrera era intransigente con tutti, non potevi rallentare. Poi è vero, non aveva la fisicità di Jair o Facchetti, ma a suo modo Corso era sempre avanti agli altri: lo era grazie al suo cervello e al suo sinistro. Glielo dicevo sempre: con lui la palla arrivava a destinazione con un passaggio anziché con due. Negli ultimi 40 metri illuminava il gioco, letteralmente”.
E poi quelle punizioni: “Ne avevamo di gente capace di battere le punizioni: pensate solo a Suarez, ad esempio. E considerate sempre come erano i palloni che usavamo a quell’epoca, specialmente quando erano bagnati. Ma quando c’era un calcio piazzato, Mario arrivava: si avvicinava sornione al punto di battuta e poi dipingeva. Come contro il Liverpool”.
Bedin : “Sono stato a trovarlo al Niguarda, ma non ho fatto in tempo a dirgli ciao… La moglie mi aveva avvisato in mattinata, Mariolino si era spento alle sei e mezzo. Piegato da una forma fulminante di leucemia, a quanto ho potuto capire. La situazione è precipitata nelle ultime quarantottore, dopo il primo ricovero di due settimane fa e il rientro a casa. A inizio settimana avevamo fissato di incontrarci, ma l’altra sera mi ha chiamato dicendo di non sentirsi in forma: ‘Sono fiacco, debole’. Ed Enrica mi ha detto che lo stava accompagnando in ospedale. La situazione è precipitata in poche ore”.
Guarnieri: “Abbiamo abitato assieme, da scapoli. In un appartamento di Porta Romana in cui una vedova, che viveva nella stessa casa, ci mise a disposizione la camera doppia con bagno privato. Eh sì, Mariolino l’ho conosciuto bene in quegli anni per noi verdissimi. Ragazzo di poche parole, ma quando apriva bocca sapeva regalarti la battuta fulminante, il giudizio illuminante. Esattamente come in campo”.
Fonte parziale Inter website
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