Autodeterminazione dei popoli si o no?

Dai Catalani, al Kosovo alla Cecenia ed alla Scozia fino agli Schützen sud tirolesi. Decine di comunità in Europa che chiedono di autodeterminarsi.

Da un primo sommario elenco possiamo con cognizione affermare che in mezza Europa sono presenti popolazioni che a vario titolo richiedono forme di maggiore autonomia fino alla totale indipendenza. Scozia, Catalogna, Aragona, Galizia, Paesi Baschi (Spagna), Kosovo, Cecenia, Crimea (Ucraina-Russia), Donbass, Cornovaglia, Galles, Irlanda del Nord, Corsica, Occitania, Bretagna (Francia), Lombardia, Veneto, Sardegna, Sud Tirol-Alto Adige, Fiamminghi e Valloni (Belgio), Isole Faer Oer (Danimarca), Baviera, Transilvania (Romania), Slesia (Polonia), Transnistria (Moldavia).

Ognuna di queste aree geografiche, di queste popolazioni ha una propria storia, una propria specifica richiesta di maggiore libertà. Molte decine di milioni di persone sentono limitati o preclusi i loro diritti. Ma allora perché è così difficile superare gli egoismi degli Stati nazionali e riconfigurare una Europa più giusta, con minori tensioni interne?

Si sente parlare da sempre di Principio di Autodeteminazione dei Popoli. Perché dunque non applicarlo a tutte queste situazioni? Perché l’Europa si mostra sorda rispetto alle rivendicazioni di così tanti suoi cittadini?

E’ proprio il Principio di Autodeterminazione dei Popoli menzionato nell’art.1 paragrafo 2 della Carta delle Nazioni Unite (1945) che di fatto taglia le gambe a tutte le rivendicazioni europee. Anche se di autodeterminazione si parla da molto prima dell’enunciazione dell’ONU, questa definisce in quali casi un popolo può legittimamente richiedere l’indipendenza dallo Stato cui è assoggettato.

 Il diritto internazionale prevede che l’integrità territoriale sia prevalente rispetto al diritto all’autodeterminazione, quindi una popolazione non ha diritto ad autodeterminarsi se questo mette in discussione l’integrità dello stato di cui la popolazione in questione fa parte.

Il diritto all’autodeterminazione si applica solo in presenza di precisi elementi, ovvero che una popolazione sia  soggetta a dominazione stranieraapartheid o a regime coloniale. In questi casi si tratta di un principio inderogabile (ius cogens), supremo e irrinunciabile del diritto internazionale.

Siamo quindi in presenza di principi di diritto internazionale non coerenti con la situazione politica europea, con le pulsioni autonomiste che da ogni dove creano situazioni di tensione interna agli stati. Basti pensare a Catalogna, Donbass, Cecenia e Crimea per farsi un’idea di quanto sia inadeguato il diritto internazionale oggi.

Pochi mesi fa ebbi l’onore di incontrare a Lugano l’ex Presidente catalano Carles Puigdemont la cui storia è nota a tutti come colui che indisse il referendum per l’indipendenza della Catalunya nel 2017 e divenne poi eletto al Parlamento di Strasburgo due anni dopo. Puigdemont mi ha chiaramente detto che tutti i popoli che si stanno battendo per ottenere la propria forma di libertà, potranno vedere la luce in fondo al tunnel solo quando l’Europa riconoscerà che esistono dei diritti inalienabili anche riferiti a popoli e non solo agli stati. Fino a quel momento difficilmente in modo pacifico, gli stati potranno riconoscere i diritti di una parte dei loro cittadini.

Eppure è la Storia che ci racconta come l’evoluzione geopolitica sia stata costante nei secoli passati. I confini degli stati mutavano in continuazione, inclusi quelli all’interno dello stivale. Si pensi solo che il congresso di Vienna, con l’atto del 9-VI-1815, diede alla penisola una nuova sistemazione politica. La penisola fu divisa in dieci stati: il Lombardo-veneto, sotto l’Austria; il regno di Sardegna (Piemonte, Sardegna, Nizza, Savoia e Liguria), sotto Vittorio Emanuele I; il ducato di Modena e Reggio, dato a Francesco IV di Austria-Este; il ducato di Massa e Carrara, affidato a Maria Beatrice d’Este; il ducato di Parma e Piacenza, assegnato alla moglie di Napoleone Maria Luisa d’Austria; il ducato di Lucca a Maria Luisa di Borbone; il granducato di Toscana (con lo Stato dei presidi e il principato di Piombino) a Ferdinando III di Lorena; la repubblica di San Marino; lo Stato della chiesa, sotto Pio VII; il regno di Napoli e di Sicilia, sotto Ferdinando IV di Borbone. Il Trentino, il sud-Tirolo e la Venezia Giulia entrarono a far parte dell’impero asburgico.

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Italia dopo il Congresso di Vienna del 1815

E stiamo parlando di duecento anni fa. I confini a quel tempo e nei precedenti cambiavano alla velocità della luce anche in virtù di costanti guerre e campagne di conquista.

Dal 1861 invece, con la proclamazione del Regno d’Italia ad opera di Vittorio Emanuele II di Savoia, salvo piccole variazioni dei confini, prevalentemente dovuti alle due guerre mondiali, i confini sono diventati inviolabili e “sacri”.

Contestiamo proprio questo principio. Se in passato guerre e campagne di conquista assestavano gli stati alla situazione geopolitica, oggi questa possibilità deve essere comunque garantita senza il ricorso a strappi violenti come in passato. Ricordiamo come esempio illuminante quello cecoslovacco. Nel 1992 il parlamento federale cecoslovacco decise che dal primo gennaio 1993 la Cecoslovacchia avrebbe cessato di esistere dando vita alla Repubblica Ceca ed alla Slovacchia, peraltro la parte più povera del paese ma che fu quella a premere maggiormente per la divisione.

Una secessione senza guerra è possibile quindi se non ci fossero le foglie di fico rappresentate dalle Costituzioni nazionali che spesso, come ad esempio per l’Italia e la Spagna impediscono “de facto” ogni separazione considerando lo Stato indivisibile.

La “remedial secession”

La secessione è un fenomeno che consiste nella separazione di uno Stato da un altro per formare una nuova entità o per aggregarsi ad uno Stato già esistente. Posta questa definizione, di particolare interesse può rivelarsi il concetto di secessione rimedio ponendo attenzione all’accertamento dell’esistenza (o meno) di un diritto alla  remedial secession.

Bisogna prima di tutto, operare una netta distinzione tra secessione e diritto alla secessione, poiché ricorre la secessione quando una parte di uno Stato decide di separarsi da un altro per divenire uno Stato indipendente o per aggregarsi ad uno Stato già esistente: sotto questo profilo è ovvio che la secessione è una questione di fatto e non di diritto. Parlare di diritto alla secessione evoca un problema su cui la dottrina si è abbondantemente pronunciata, ovvero il controverso rapporto intercorrente tra autodeterminazione ed integrità territoriale. Taluni sul punto non hanno mancato di far rilevare come nel corso dell’ultimo secolo questo genere di conflitti abbia visto prevalere, come abbiamo già sottolineato, il diritto degli Stati a vedere rispettata la propria integrità territoriale con il conseguente obbligo da parte degli altri Stati di rispettare l’inviolabilità dei confini. Riconoscere l’esistenza di un diritto alla secessione, secondo alcuni, sarebbe possibile allorquando sussistano una serie di esigenze di carattere umanitario e, quindi, la protezione dei diritti di un gruppo di identità faccia premio sulla garanzia del confine.

Il principio di autodeterminazione, da sempre, è stato ritenuto come una forma di espressione della libertà di scelta del regime politico, economico e sociale, ma, secondo le regole sancite, come abbiamo detto, dall’ONU, tale principio non deve ledere le esigenze di tutela dell’integrità territoriale dello Stato. Un valido motivo ad autodeterminarsi può ritenersi sussistente nelle sole ipotesi in cui un gruppo di identità interna allo Stato non abbia accesso a forme di rappresentanza o venga mantenuto escluso dal decision making process all’interno dello Stato stesso di appartenenza. Inoltre si può legittimamente invocare l’autodeterminazione in presenza di gravi violazioni dei diritti dell’uomo.

Come uscirne?

Il diritto internazionale quindi blinda le possibilità dei singoli popoli di vedere accolti i loro diritti, sulla base di una prevalenza del diritto alla permanenza dei confini nazionali rispetto ai diritti di parte della popolazione.

Il caso cecoslovacco è l’unico esempio di interesse prevalente alla divisione rispetto alla unità. Ammettiamo che in Europa sia alquanto improbabile, almeno nella situazione attuale, il ricorso alla forza per imporre divisioni. Sarebbe stroncata sul nascere dall’intero consesso europeo. Tali soluzioni sono oggi ipotizzabili solo in un’ottica di contrapposizione di Stati come ad esempio nel caso della Crimea.

L’unica possibilità reale deriva sia da un potenziale seppur difficile effetto domino da parte di realtà come ad esempio quella scozzese qualora riuscisse nel suo intento di separazione dal Regno Unito ma soprattutto dal crescere della consapevolezza dei popoli europei che una Europa degli Stati, come è adesso, non sarà mai una Europa compiuta, strozzata dagli egoismi e dalle contrapposizioni nazionali. Una Europa compiuta passa necessariamente da un abbattimento dei poteri nazionali e da una valorizzazione delle realtà territoriali. Quella che noi chiamiamo Europa dei Popoli contrapposta ad una Europa delle Nazioni che vera Europa non sarà mai.

Questa enorme crescita culturale potrà dare uno scossone decisivo a cambiare in modo pacifico la struttura attuale geopolitica dell’Europa. Ma questa spinta deve arrivare dai popoli, alzando sempre più il livello delle loro rivendicazioni e facendo percepire che il modello nazionalistico sovranista non funziona.

Non disprezziamo intanto le piccole spinte nel senso dell’autodeterminazione. Il coraggio degli Schützen in Sud Tirolo, al di là delle loro motivazioni, è un esempio di compattezza di una comunità che auspichiamo possa contagiare altre realtà e diffondere la cultura del territorio sostituendolo alla cultura della nazione.

https://www.nordnotizie.it/2020/06/15/lega-alto-adige-gli-schutzen-disprezzano-lo-stato-italiano/

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Gianantonio Bevilacqua, giornalista pubblicista dal 1998 Ordine dei Giornalisti - Regione Lombardia. , Esperto di difesa e politica

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