
“Lei non sa chi sono io” recitava un indimenticato Vittorio De Sica nei panni di un sindaco al vigile urbano Alberto Sordi che voleva multarlo. Corsi e ricorsi che puntualmente vengono a galla quando si parla di abuso di potere da parte di una classe dirigenziale, specie quella politica, che spesso sfrutta la carica per ottenere favoritismi.
Non è certo il caso dell’ex onorevole Mario Sberna, già deputato di Scelta Civica poi passato a Democrazia Solidale, anche se il caso potrebbe ricordarlo.
L’ex parlamentare racconta al Corriere della Sera la sua odissea da malato di COVID-19.
“Sono salvo grazie alla bombola d’ossigeno tolta a un 84enne mantovano. L’ 11 marzo eravamo in trenta nella lavanderia del Civile adibita a reparto Covid. C’erano solo tre bombole d’ossigeno. Un inferno senza cibo e coperte, con un solo wc. Peggio di certi ospedali del Burundi, che ben conosco”. E di Africa se ne intende avendo fatto per anni il missionario. Famoso per andare alla Camera dei Deputati in sandali e cravatta, Sberna del lauto stipendio che percepiva si tratteneva solo 2500 euro, devolvendo il resto ai poveri.
Durante il suo ricovero non ha mai accennato alla sua carica di parlamentare per non avere favoritismi, al contrario del “sindaco” De Sica.
“Il 7 marzo mi bruciavano polmoni e gola, avevo febbre a 39° C e, nonostante le iniezioni di antibiotico, non miglioravo. Ricordo benissimo i consigli che a quel momento dava Regione: non presentatevi in pronto soccorso e non usate la mascherina se non avete certezza di avere il Covid. È stato il mio medico di base, che a sua volta poi si è ammalata di coronavirus, forse per colpa mia, a dirmi di andare in ospedale. Mi sono presentato l’11 marzo. Facevo fatica a reggermi in piedi. Lì ho vissuto quattro giorni d’inferno. Credevo di morire, di non rivedere più mia moglie e i miei cinque figli. Sono finito nella lavanderia dell’ospedale, adibita a reparto Covid. Posso dirle che certi ospedali della diocesi realizzati in Burundi e in altri paesi del Sud del mondo, che conosco bene, sono organizzati meglio”.
“Eravamo in trenta malati e c’erano solo tre bombole d’ossigeno – continua -. Vicino a me c’era un’84enne di Mantova attaccato al respiratore. Mi diceva che non vedeva l’ora di tornare a casa per cucinare il risotto con la salamella ai suoi nipoti. Una notte è peggiorato, l’hanno caricato su un’ambulanza e hanno dato a me la sua bombola” ricorda piangendo.
“Poi ricordo il freddo cane: le porte erano sempre spalancate. “Deve circolare l’aria” ci dicevano. Ma non avevamo coperte. Non c’era cibo. Passavano quei santi degli infermieri a darci un pacchetto di crackers, dei grissini o uno yogurt. C’era un solo bagno per tutti quei malati, molti dei quali avevano dissenteria e vomito, come me. Un bagno in condizioni vergognose anche in tempi di pace, figurarsi in tempi di Covid. Non hanno aggiunto nemmeno una toilette chimica”.
“Guardi, io non me la prendo con gli infermieri. Hanno fatto il possibile. La mia rabbia è contro la dirigenza dell’ospedale (che non ho mai visto in reparto) e contro chi gestisce il sistema sanitario in Lombardia: servivano servizi aggiuntivi d’urgenza, che non sono stati garantiti. Io ho sempre vissuto nel mondo missionario e per la prima volta mi sono sentito povero. Nella mia Brescia, non in Africa. C’è stato un momento che mi sono sentito morire. La senti eccome la morte, quanto arriva. Sa qual è stata la differenza tra la fine della mia vita terrena e il prendere coscienza che il Signore ha ascoltato le mie preghiere? Una bombola d’ossigeno”.
fonte Corriere della Sera
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