
Ennio Pastoret, classe 1950, dal 1993 al 2018 fa parte degli organismi direttivi dell’Union Valdotaine di cui ricopre il ruolo di Presidente dal 2013 al 2018. Già consigliere regionale per tre legislature dal 1998 al 2013, non più candidato nel 2013 sulla base dello Statuto dell’UV che prevede la limitazione a non più di 3 mandati in Consiglio regionale.
Ricopre per tre volte la carica di assessore: all’istruzione e cultura dal 1998 al 2003, al turismo, sport, commercio e trasporti dal 2005 al 2008, alle attività produttive dal 2008 al 2013. Sotto la sua amministrazione, nell’ottobre del 2000 nasce ufficialmente l’Università della Valle d’Aosta – Université de la Valle d’Aoste, ne diventa il primo Presidente e ne regge le sorti fino alla scadenza della legislatura nel luglio 2003. La creazione e la nascita dell’UNIVDA è certamente il traguardo più prestigioso realizzato durante tutta la carriera amministrativa.
Con lui abbiamo voluto scambiare due chiacchiere sul tema autonomista.
Lei che è stato per anni un amministratore, militante e dirigente dell’Union Valdôtaine, come valuta lo stato dell’Autonomia che la Val d’Aosta è riuscita ad ottenere e di cui gode attualmente? È Soddisfatto del suo operato e di quello del suo partito?
L’Autonomia alla Valle d’Aosta fu concessa dallo Stato a fronte delle forti spinte separatiste del fine guerra che vedevano presenti sul territorio valdostano le truppe francesi, che sostenevano i fautori dell’annessione alla Francia e quelle americane, che vi si opponevano. In questo clima nacque il progetto di Autonomia . Era un atto di riparazione ai soprusi che l’Italia aveva imposto con la chiusura delle numerose scuole di villaggio in francese, che avevano azzerato l’analfabetismo, con il cambiamento dei toponimi dei comuni, con il tentativo di italianizzare i nomi di famiglia, con la volontà di non occupare nelle fabbriche i valdostani creando così una immigrazione forzata. Ma si capì presto, a partire dal dibattito che ci fu alla Costituente sulla promulgazione dello Statuto speciale della Valle d’Aosta, che lo spirito colonialista nei confronti delle nascenti Autonomie persisteva. I tentativi di limitare la portata dell’Autonomia della Valle d’Aosta furono numerosi. Questa entrò comunque in vigore, emendata in diverse parti rispetto alle proposte iniziali. Malgrado ciò, nel corso degli anni, non vi fu poi un’applicazione integrale dello Statuto speciale. Nel 1945, a sostegno delle rivendicazioni autonomiste ed in vista del futuro dibattito alla Costituente, nacque l’Union Valdôtaine con l’obbiettivo dichiarato di ottenere ampie prerogative Costituzionali e proponendosi di perseguire l’autogoverno della Valle d’Aosta. Ma la lotta era impari. Una piccolissima realtà doveva confrontarsi con uno Stato che faticava ad avere una visione dinamica dei bisogni di autogoverno delle sue genti. Purtroppo questo tema rimane attuale ed altre realtà italiane lo hanno ben constatato. Quindi, per arrivare infine alla sua domanda rispondo che no, né io né il mio partito siamo soddisfatti di quanto fatto fino ad ora. Per noi l’Autonomia dovrebbe essere uno strumento che conduce al Federalismo, cioè ad una composizione più o meno ampia di soggetti e di aree geografiche e popoli (al di qua e al di là delle Alpi poco importa) che responsabilmente scelgono di reggersi in una realtà federale dove per ognuno si stabiliscono dei doveri, ma dove ognuno esercita, in prima persona, i diritti che derivano dalla sua composizione sociale, culturale, territoriale ed economica.
Nel corso del tempo abbiamo un po’ perso di vista questa visione di costruzione autonomistica avendo dovuto assumerci responsabilità amministrative che hanno assorbito troppe energie a discapito dei nostri principi di lotta. La nostra è quindi diventata una battaglia complicata con l’impegno, da una parte, di dare risposte sul piano gestionale ed amministrativo a cui eravamo stati deputati dall’elettorato e, dall’altro, nel doverci difendere dai reiterati attacchi alla nostra Autonomia.
In questi momenti dobbiamo però accontentarci di poter salvaguardare l’esistente. I tempi sono difficili in Italia e in Europa. Il dibattito sul Federalismo, che aveva avuto una certa accelerazione alcuni decenni fa, si è arenato. Pare ,oggi, che anche gli accesi federalisti d’antan abbiano virato su posizioni stato-centriche. L’attuale visione sul Federalismo si riduce ad un dibattito sul decentramento amministrativo di funzioni. E questo avviene in una frammentazione di un quadro politico che rende difficilissimo trovare delle interlocuzioni serie e produttive.
Si parla gioco forza in questi anni, dopo il referendum sull’autonomia di Lombardia e Veneto del 22 ottobre 2017, di trattativa stato-regioni per trovare un accordo per l’applicazione della volontà popolare. Secondo lei sono stati fatti degli errori? Si poteva, per esempio, specificare prima le competenze per arrivare al confronto con un mandato più forte?
Ho accolto positivamente la volontà di referendum da parte di queste Regioni. Considero favorevolmente ogni passo che porta ad assunzioni di responsabilità più dirette di autogoverno. Certo che per fare ciò è necessario individuare in modo preciso i contenuti a cui deve seguire un confronto tra realtà regionali e Stato centrale. Ma è anche vero che non tutto può essere scritto a priori. Le rivendicazioni devono esserci ed essere forti poi, però bisogna passare alle fasi negoziali. E lì bisogna anche avere la consapevolezza che non vi sono traguardi definitivi ed immutabili poiché l’Autonomia è soggetta a un divenire continuo. Sono quindi da tenere presente le esigenze che le regioni devono declinare e le difficoltà di uno Stato che non ha la capacità di ridisegnare la sua architettura istituzionale. Non intravedo da parte sua la necessaria maturità per affrontare questi temi con una visione più aperta. Vi è la palla al piede della debolezza culturale dell’attuale classe politica. Oggi per condurre in porto una trattativa seria sulle richieste autonomiste le Regioni avrebbero bisogno di potersi confrontare con statisti colti e lungimiranti purtroppo così non è.
Cosa si sente di consigliare ai governatori delle due Regioni?
Essi hanno già fatto un passo importante dal punto di vista del principio. Il passo più difficile è però quello di rendere consapevoli i propri cittadini dell’importanza dell’Autonomia come motore propulsivo delle coscienze . La sensibilità popolare non può solo riferirsi agli aspetti economici, che pure sono importanti. A questi diventa necessario affiancare un solida inclusione sociale e culturale. Senza un radicato senso di appartenenza l’Autonomia resta debole. E per essere percepita al meglio dalla gente essa deve essere tangibile sotto molti aspetti. Direi che uno dei primi temi riguardi una continua ed effettiva capacità di redistribuzione di competenze verso il basso che consentano di rendere a loro volta sempre più autonomi i propri territori. Nelle grandi Regioni vivono realtà assai varie e gli unici soggetti che sono in grado di intercettarne i bisogni sono le collettività locali secondo il principio di sussidiarietà che è alla base di ogni autonomia.
Voi siete una Regione con una forte presenza bilinguistica, così come per esempio il Sudtirolo e lo stesso Veneto. Che ruolo gioca il bilinguismo nel percorso autonomista di un territorio?
Lo Statuto speciale, che è Legge Costituzionale, ha riconosciuto la condizione bilingue della Valle d’Aosta. Si può dire che è proprio per questa caratteristica che alla Valle è stata concessa un’Autonomia speciale, anche se la questione è in realtà assai più complessa. Negli anni, si è cercato di difendere la presenza del francese in Valle d’Aosta quale elemento fondante della nostra Autonomia. Da noi non è però stata introdotta un doppia filiera linguistica e scolastica a differenza di quanto avvenuto in Sud Tirolo. Purtroppo i ridotti margini di manovra e di intervento in un sistema di istruzione, che è rimasta di competenza dello Stato, non hanno consentito di salvaguardare un significativo equilibrio bilingue. Il francese ne è uscito fortemente indebolito. Ma noi parliamo di lingue della Valle d’Aosta. Difatti rimane significativamente in salute il franco provenzale, una lingua che continua ad essere ampiamente tramandata e parlata da molti anche non autoctoni. Dall’unità d’Italia, nel 1861, sono stati ripetuti e continui gli attacchi per indebolire il francese in Valle d’Aosta. La durissima imposizione fascista non ha rappresentato che una della continue azioni di colonizzazione culturale della Valle d’Aosta. C’è stata una lotta impari, malgrado ciò, al di là del radicamento linguistico, si è mantenuto ed in qualche modo rafforzato, il senso di appartenenza dei Valdostani alla loro terra e questo costituisce il vero substrato culturale della nostra Autonomia.
Sempre a proposito di bilinguismo lo stato centrale italiano non ha ancora ratificato la Carta europea delle lingue regionali o minoritarie che ha firmato nel 2000, rendendola inapplicabile in Italia. Cosa ne pensa?
Ero Assessore regionale all’istruzione e alla cultura quando apparve la “Carta europea delle lingue regionali o minoritarie”. Salutai con grande favore questa cosa che apriva praterie di curiosità e di speranze a noi, che costituiamo un’isola linguistica particolare. Ma l’Italia stessa costituisce un arcipelago linguistico straordinario. Lo Stato ed una classe politica quale quella che ho descritto poc’anzi denotano tutti i limiti del caso ad occuparsi di queste cose. Non le conoscono, le sentono distanti quindi se ne disinteressano anche perché questi temi non producono consensi. Ed ecco quindi l’importanza delle autonomie territoriali che hanno come fattore propulsivo la conoscenza e l’amore per i loro luoghi. Solo le Autonomie possono avere a cuore il loro patrimonio immateriale che è prezioso poiché contribuisce a salvaguardare il senso di appartenenza che rende ricca ed unita ogni comunità. Questa d’altronde è la vera lotta: tra lo Stato che vuole omologare ed i territori che vogliono vivere le loro peculiarità.
Voi avete stretto accordi con movimenti autonomisti di altre regioni, specie con quelle dell’arco alpino e subalpino. È veramente possibile la costituzione di una macroregione alpina? Se si da quali regioni dovrebbe essere composta?
Tendo a rifiutare il termine di macroregione sia perché è stato caricato di troppe ambiguità, sia perché rischia di introdurre il concetto di qualcosa che mette insieme, replicando, in piccolo, il modello degli stati nazionali.
Chiarito questo auspicherei che si iniziasse con una sorta di alleanza, di patto federativo tra le varie realtà territoriali dell’arco alpino. Guardo a sud come a nord delle Alpi e lo immagino aperto a chi intenda aderirvi in ogni momento. La costituzione di un soggetto definito che possa raggruppare diverse realtà dovrebbe certamente fare i conti con la differenze linguistiche, culturali, sociali, territoriali, economiche. Ma si possono raggiungere delle intese, delle collaborazioni, delle alleanze ed in seguito delle composizioni inclusive che riguardino anche aspetti amministrativi e gestionali condivisi. Ma ripeto, per me si tratterebbe di un unione di insiemi diversi che devono vedere garantite le proprie prerogative evitando di creare un replicante dei modelli centralistici.
Per finire pensa che l’unione fra le forze autonomiste, pur mantenendo ognuno la propria identità, possa essere la strada giusta oppure la sua esperienza le suggerisce che bisogna intraprendere altre strade?
Ogni territorio che intende esprimere la sua autonomia lo fa in relazione al proprio contesto, cosicché nessuna Autonomia può essere uguale ad un altra. Sono simili sono i principi che la generano, le esigenze che la sollecitano, ma sono diversi i territori con cui essa interloquisce. Chiarito tutto ciò sono assolutamente favorevole ad una unione tra forze autonomiste delle varie regioni. Gli scopi sono comuni e sono quelli dell’affermazione dei principi autonomisti di cui ognuno è portatore, con le sue peculiarità. Tutto questo ci conduce ad dover immaginare un insieme che abbia senso e possa consentire questo passaggio e la risposta sta nel Federalismo.
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